Mia Hansen-Løve sembra aver trovato una sintesi formidabile del suo stesso cinema in questo nuovo L’avenir, parola che in apertura viene sovrimpressa sull’immagine di una tomba e che nuovamente, nel distacco progressivo di Nathalie dai luoghi della propria memoria, viene assorbita dalla luce di una nuova nascita.
La perdita non é solo una delle tracce tematiche più evidenti nel cinema della cineasta francese, da Tout est pardonné fino ad Eden, ma é anche il punto d’osservazione scelto nella distanza tra soggetto e tempo, quello che le consente di cogliere leggibilità del gesto e inesorabilità del flusso.
Il paesaggio marino e famigliare che Nathalie osserva dal finestrino della macchina, come percorso di una morte al lavoro e il bimbo della figlia tra le sue braccia, inquadrato in una zona periferica dell’occhio mentre un leggero travelling indietreggia attraverso gli interni della casa, sono due visioni del tempo a-venire solo apparentemente in contrasto, perché se anche si volesse parlare di ciclicità, la dovremmo intendere come una presenza costante che include in ogni immagine la tridimensionalità del tempo.
Nathalie allora, non sembra retrocedere al crollo improvviso della sua vita e dallo spossessamento degli affetti, semplicemente perché quella morte é sempre stata li, insieme alla vita. E Hansen-Løve la coglie nel contrasto tra i giovani allievi della donna e il suo approccio formativo alla filosofia, nella relazione prospettica tra prassi e pensiero, in quella lacrima oggettiva che le scorre sul volto mentre decide con il prete i dettagli per il funerale della madre.
Da questa eredita un gatto nero, con un nome apparentemente simbolico come Pandora, presenza che non assume certo quel senso se non per quel tipo di critica a caccia di un segno che renda più tollerabile la superficie dell’immagine.
Pandora fugge verso il bosco seguendo il proprio istinto e porta a Nathalie un topo morto, ma non libera certo la fioritura di una nuova vita se non nel dissidio tra cambiamento e adattamento, prassi che non sembra estranea alla donna, capace di rivelarsi attraverso le incertezze del presente, con una mutazione necessaria dell’orizzonte visivo dove anche la famigliarissima e amata Bretagna assume una connotazione completamente diversa.
L’avvenire dura a lungo, diceva Althusser, descrivendo quel tipo di evento che sembra erompere d’improvviso se non fosse in realtà compreso in un accadimento di qualità peculiarmente soggettiva, dalla durata più estesa dell’evento stesso. L’avvenire diventa allora storia nel riconoscimento retroattivo di quei semi da cui é costituito, come la natura transitoria di quella spiaggia che Nathalie si lascia alle spalle. Il cinema di Mia Hansen-Løve é in questo senso un raro e sottile miracolo, che si manifesta tra soggetto e immagine, cinema che dura a lungo anche dopo i titoli.