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Le Mans ’66 – La Grande Sfida di James Mangold: la recensione in anteprima

Al cinema, quello americano è un sogno che davvero non muore mai. L’affabulazione come creazione mitopoietica di racconti aggreganti persiste nello spaziotempo del racconto filmico e agisce come opzione – vincente – del contemporaneo. Rinnovata in relazione all’orizzonte contestuale eppure sempre, straordinariamente identica a se stessa, l’idea di una narrazione forte si lega per genesi all’obiettivo principe di assorbire nell’universo finzionale lo spettatore, corpo senza peso che viaggia a settemila giri al minuto, rigettato fuori per guardarsi dentro, verso la soglia liminale oltre la quale l’unica domanda che conta è: chi sei?

Le Mans ’66 viene a campeggiare come un gigante tra i film sull’automobilismo. Le Mans ‘66 non è un film sull’automobilismo, ma la realizzazione paradigmatica di una – discorsiva, o più – tematiche – matrici archetipiche. James Mangold le sviluppa ancora una volta (Walk the line, Wolverine, Logan) attraverso uno storytelling ineccepibile che aumenta il peculiare in universale, delineandosi al contempo in forma di immagine autoriflessiva.

Mangold conferma cioè la capacità di saper stare più di ogni altro dentro Hollywood, industria e stile, seminandovi più di ogni altro i motivi della propria specificità, quando non la cifra di una precisa alterità autoriale modulata su uno script che si apre, per bagliori, a prese di distanza.

Ken Miles, un Christian Bale puntualmente eclissato dietro il carisma, e il british accent, del personaggio, si colloca allora sulla scia di quelle vite al massimo esperite nella zona di confine, nello spazio interiore della sfida tra l’uomo e se stesso prima ancora che tra l’uomo e la macchina; in definitiva in quella terra di mezzo di epica memoria – il nome di John Ford è, non a caso, al centro di un divertente siparietto – su cui il regista ha indugiato più e più volte facendone una sorta di campo elettivo per l’esercizio di uno sguardo classico e nonostante ciò, o proprio perché tale, in grado di cogliere il sentimento dell’oggi.

Talento incontrastato al volante e padre eroico, Miles è un “bulldog” poco incline al compromesso, per nulla aderente all’iconicità ingessata dell’uomo Ford di cui lo si vorrebbe rappresentante in quegli anni Sessanta in cui la casa automobilistica, sotto la guida di Henry Ford II (Tracy Letts), tentò, a fronte di una crisi nella vendite ben intercettata dall’allora responsabile del marketing Lee Iacocca (Jon Bernthal), di costruire un’auto da corsa capace di gareggiare fianco a fianco con l’imbattuta scuderia di Enzo Ferrari (Remo Girone), per superarla infine nella 24 ore di Le Mans.

Ma, si diceva, l’agonismo che qui conta, al netto di un’imprescindibile, avvolgente dose di adrenalina restituita dall’adesione prospettica alla percezione dei personaggi, è quello giocato in casa. L’America e le sue ipocrisie; il cinema, la creatività, gli accomodamenti.

Carroll Shelby/Matt Damon, ex pilota e venditore di auto ingaggiato di costruire per la causa il nuovo veicolo Ford, è specchio e complemento, spalla e contraltare di Miles/Bale, in una ponderata performance di coppia che rilegge i miti del self-made man e del cameratismo amicale riattualizzandone gli antagonismi. Dietro la retorica del fare squadra sono infatti manifesti gli interessi dei vertici, dietro i loro completi inamidati il tentativo di asfissiare un estro che sa di passione e asfalto, disciplinarlo, serializzarlo, piegarlo alle esigenze del mercato o, peggio, al capriccio di uno tra quelli che contano.

Evidenziare il parallelo tra industria automobilistica e cinematografica risulta certo molto più didascalico di quanto non appaia in questo Le Mans ’66, che scommette proprio sul gruppo per la coerenza delle parti: dal casting meticoloso relativo a tutta l’orbita dei personaggi alla fotografia che satura lo schermo dei vividi toni anni Sessanta, tutto è organicamente al servizio della storia.
“Troppo di razza”, magari, il genio di Mangold nel centrare i tempi.

Wait for it. Wait for it. Now.

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