giovedì, Dicembre 19, 2024

Le meraviglie di Alice Rohrwacher: la recensione

L’evocazione di un tempo cristallizzato nella memoria. Il passato come rifugio, esplorato dall’occhio attento e sensibile di Alice Rohrwacher

La macchina da presa si muove come una presenza invisibile in uno spazio e in un tempo che si rivelano da subito appartenenti ad una dimensione onirica, evocata. È lo sguardo di Alice Rohrwacher, una penetrazione nella sua memoria, in un nostalgico viaggio proustiano che parte da quei luoghi abbandonati al degrado, da quel casolare sgangherato, da quella campagna brulla e da quei personaggi trasandati; fantasmi percepibili dal solo occhio della camera che coincide con l’occhio dell’autrice.

Le Meraviglie è infatti la pura contemplazione di un tempo cristallizzato nella memoria. Un desiderio eternante che passa immancabilmente attraverso il mezzo cinematografico. Un mondo che riprende vita come visibile elucubrazione sul passato, fino alla dissolvenza finale, al ritorno al presente, che la giovane regista mette in scena attraverso un piano sequenza che corrisponde ad un’ellissi temporale.

Alice Rohrwacher dà comprova della sua abilità, arrivando a costruire immagini così cariche da sovvertire il concetto de “l’uomo come unità di misura del linguaggio cinematografico”. Immagini che, volute o meno, rimandano inevitabilmente ad un modo di fare cinema costantemente all’insegna della sperimentazione. L’ape che si inerpica sul viso immobile di Gelsomina e l’immagine della tradizionale arrampicata sull’albero della cuccagna trasmesse da uno schermo TV, non possono infatti non ricordare il film Le quattro volte di Michelangelo Frammartino; se non per la citazione esplicita, di certo per il valore espressivo che comunicano. Se infatti Frammartino adotta la formica sul volto umano al fine di trasformare il primo piano in una sorta di sfondo, portando l’occhio dello spettatore a concentrare l’attenzione sull’insetto, allo stesso modo la Rohrwacher relega il primo piano di Gelsomina a semplice sfondo per il movimento dell’ape. Un simbolismo che si rafforza e si rispecchia nell’arrampicata dell’uomo sull’albero della cuccagna, ora lui formica su uno sfondo vegetale. Immagini eidetiche dal forte spessore filosofico, che dimostrano un’estrema sensibilità rispetto al rapporto con la natura, fino a rimettere in discussione la figura dell’uomo come misura, in una visione relativista che instaura una forte relazione tra chi guarda e chi è guardato.

E se “Le quattro volte” nasceva dal desiderio di raccontare quello spirito animista, quella fede nella reincarnazione e nel raggiungimento di un’immortalità nel ciclo eterno della natura, allo stesso modo “Le Meraviglie” fa combaciare il volto di Gelsomina con il paesaggio, a sottolineare come l’evocazione di una vita passata nasca dagli spazi in cui trovò compimento: la campagna e la cascina.

Lo spazio chiuso, in cui il padre Wolfgang tiene la propria famiglia al sicuro da un mondo inevitabilmente corrotto, trova un’efficace specularità nell’immagine dell’alveare. Un microcosmo altrettanto esclusivo ed incontaminabile (un piccolo mondo multilingue e multiculturale), in cui l’avvento di un qualsiasi agente esterno può portare alla compromissione, alla morte. È ciò che infatti capita alle api allevate dalla famiglia, e ciò che rischia di succedere anche alla famiglia stessa, circuita da un mondo che banalizza il loro vivere secondo natura (è in quegli anni che nasce la moda dell’agriturismo) e che è basato su una finzione e un’illusione diffusa attraverso il mezzo televisivo, veicolo di un immaginario distorcente come fu quello per l’adolescenza degli anni ’90. Gelsomina e Marinella cantano in un contesto di vita rurale incontaminata, “t’appartengo” di Ambra, la canzone simbolo di una generazione: un cortocircuito che lascia emergere il cambiamento in atto, ma anche il desiderio di emancipazione, di superamento della fase edipica, prima di affacciarsi al mondo reale, che dalle premesse e dai modelli, sembra già preannunciarsi apocalittico. Forse le parole di Wolfgang non suonano insensate, “il mondo sta per finire” dice, e forse è così, o per lo meno quel mondo, quel passato che mai più tornerà, ma che resterà in eterno cristallizzato nella memoria, sempre pronto ospitarci di nuovo come rifugio incontaminato da una realtà che sembra guastarsi sempre più.

Andrea Schiavone
Andrea Schiavone
Andrea Schiavone, appassionato di cinema ha deciso di intraprendere studi universitari in ambito cinematografico. Laureatosi in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma ed attualmente studente magistrale in Cinema, Televisione e New Media alla IULM di Milano.

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