Edgar Reitz, anni novantadue, il cantore dell’Hunsrück, si fa beffe di coccodrilli e premi alla carriera. Bello come il sole, si è presentato alla settantacinquesima Berlinale con un nuovo film di finzione, il migliore che abbia mai fatto in questa forma, un capolavoro senza se e senza ma. Un film con Leibniz protagonista.
Sofia Carlotta (Antonia Bill), prima regina di Prussia, vorrebbe avere un ritratto dell’amatissimo filosofo e consigliere di corte, che è stato il suo insegnante. Leibniz (Edgar Elge) si mette in posa prima per il pittore di teste coronate Delalandre (Lars Eidinger), poi per la giovane Aaltje van de Meer (Aenne Schwarz), proveniente da Delft, dove per lavorare è costretta a spacciarsi per un uomo.
Il dialogo tra i due diventa un volano per la filosofia leibniziana. Inizialmente, il progetto scritto insieme Gert Heidenreich, già cosceneggiatore di Die andere Heimat (2013), avrebbe dovuto essere un affresco kubrickiano sulla vita del pensatore sei-settecentesco. Limitazioni di budget hanno via via costretto il film tra quattro mura, facendo perno su una sequenza – il diverbio, esilarante, tra Leibniz e Delalandre – per sviluppare il resto dell’azione.
Un film da camera, con tracce evidenti di Manoel de Oliveira (stilistiche, oltre che anagrafiche), del Rossellini televisivo, di Greenaway (l’emù nel parco, il grottesco delle parrucche), di Terence Davies nell’acume dei dialoghi e di Derek Jarman nella follia di voler portare il pensiero sullo schermo.
Se questo sarà l’ultimo film di Reitz, e speriamo di no, si creerà un ulteriore parallelo col canto del cigno di un altro maestro da sette decenni, Andrzej Wajda, che con Powidoki (2016) chiude il cerchio parlando di un artista e della sua teoria visiva.
La gestazione di questa ennesima “cronaca” a firma Reitz è durata nove anni, e il risultato supera ogni legittima aspettativa. Leibniz è un film di dialoghi illuminanti, con performance straordinarie e un gusto tutto reitziano per le manie, i dettagli, le invenzioni. È come se le trovate leonardesche di Leibniz, dalla sedia da viaggio al calcolatore meccanico, recuperino e salvino dall’oblio gli aspetti più briosi del Sarto di Ulm (1978), a suo tempo affogati in una narrazione storica un po’ goffa.
C’è tanto stupore in questo Leibniz. Il filosofo ha una “camera oscura” dove conserva, infilzati come arrosticini, migliaia di foglietti – per la precisione: 24.000 – su cui annotava idee e intuizioni. Tra monadologia, sistema binario e mondi possibili si fa strada anche il teatro della natura e delle arti che per Reitz è evidentemente una metafora del cinema. E dalla fruttuosa conversazione tra il filosofo e la pittrice di scuola vermeeriana emerge un’idea viva dell’arte e delle immagini che non può non essere debitrice del lavoro di Horst Bredekamp. Uno slancio che Reitz rende anche percettivamente, con giochi di lenti e luce che sembrano volersi riallacciare a Varia Vision (1965).
Leibniz – Chronik eines verschollenen Bildes è Settecento inventato ma plausibile, è un film spassoso come il flauto che accompagna il catastrofico lavoro di Delalandre, e dopo Filmstunde_23 segna la collaborazione del suo autore con un giovane regista di sostegno, stavolta Anatol Schuster. Collaborazione, si badi bene, per pure ragioni assicurative, così come Jörg Adolph in Filmstunde aveva funto solo da montatore in quanto Reitz non poteva editare sé stesso, presente nella pellicola in carne e ossa.
In Leibniz c’è pure un pezzetto di Heimat grazie alla scelta di Antonia Bill nel ruolo di Sofia Carlotta. Bill compare quindicenne in Die andere Heimat, e Reitz ha voluto proprio lei, “la ragazzina dell’Hunsrück” come ha voluto ricordare durante il Q&A della prima mondiale del film, per il tragico ruolo della figlia di Sofia del Palatinato (Barbara Sukowa).
Solo il pensiero rende felici. Edgar Reitz ha fatto un film sul pensare e sull’atto creativo, un lungometraggio inaspettato che chiude un ciclo iniziato con Mahlzeiten (1967)… da Mahlzeiten a Malzeit (tempo di dipingere). Chiude? Reitz è tuttora convinto che il cinema sia solo nella sua fase pionieristica, quindi questo Leibniz non è un testamento, bensì un vagito misto al riso.
Leibniz, Chronik eines verschollenen Bildes di Edgar Reitz (Leibniz – Chronicle of a Lost Painting – Germania 2025, 104 min)
Interpreti: Edgar Selge, Aenne Schwarz, Lars Eidinger, Antonia Bill, Barbara Sukowa
Sceneggiatura: Gert Heidenreich, Edgar Reitz
Fotografia: Matthias Grunsky