Indie-eye: Perché Leibniz?
Edgar Reitz: È una storia lunga, molto lunga. Il mio primo incontro con Leibniz è stato a 18 anni, quando ho fatto l’esame di maturità. Ero in Renania, dove sono cresciuto, nella cosiddetta zona francese. Per cui gli esami erano strutturati in base al sistema francese. Religione era una delle materie principali. Incredibile: c’era un esame apposito, e si rischiava la bocciatura in Religione. Io ero considerato il non credente della classe. Feci l’esame. Preparandomi, m’imbattei in Leibniz, che nella Teodicea si prefigge di dimostrare scientificamente l’esistenza di Dio. Ho letto i due volumi all’età di 18 anni. E presi il massimo dei voti, pur senza la fede.
Questo episodio mi ha fatto affezionare a lui per il resto della mia vita. La seconda volta che ho incontrato Leibniz è stato nel 2008, quando la città di Hannover mi ha contattato con la proposta di organizzare una mostra sul filosofo. Mi incaricarono di sviluppare un progetto. Così mi immersi di nuovo nel mondo di Leibniz. Il progetto si chiamava Leibniz Kino. In lui vedevo l’opportunità di visualizzare l’intera gamma sperimentale di quello che chiamiamo cinema, nell’ambito di una grande mostra. Talmente grande che le autorità locali si misero le mani nei capelli. Perché sarebbe costata pressappoco 50 milioni di euro. Non era finanziabile. Al che mi sono tirato indietro e ho girato un film, Die andere Heimat. Una coproduzione con la meravigliosa Margaret Ménégoz, deceduta un anno fa. E con Les Films du Losange, i miei partner storici.
Dopo questo film, che andò molto bene a Parigi, il tema Leibniz riemerse. L’idea cioè di fare un grande film su di lui. Mi misi al lavoro col mio co-sceneggiatore Gert Heidenreich, e in due anni scrivemmo una prima versione. Un vero e proprio biopic. Una grande storia di vita. Facemmo i conti. Non sarebbe costato 50 milioni… ma 25. Leibniz era ancora troppo costoso. Perché? Il periodo barocco è un’epoca diversa dalla nostra sotto ogni aspetto. Bisognava fare un film in costume sugli anni successivi alla Guerra dei trent’anni. Città distrutte ovunque, grandi malattie come la peste e il colera. Migliaia di persone morirono a causa delle epidemie. Nel film volevamo mostrare tutto questo. Ma era troppo oneroso, così scrivemmo una seconda sceneggiatura. Altri due anni di lavoro, con grandissimo studio delle fonti.
Mi tuffai a capofitto negli scritti di Leibniz, nella sua vita. Volevo scoprire l’uomo. La particolarità di Leibniz è che non sappiamo nulla della sua vita privata. Nulla. Era una grande mente, un grande pensatore con una filosofia meravigliosa, onnicomprensiva. Ma della sua vita non sappiamo niente. Non aveva una famiglia, non aveva amici, niente malattie, niente guai legali. Non fu perseguitato per via giudiziaria, e nemmeno dalla Chiesa! Quindi la sua vita privata era una grande stanza buia. Ed è da lì che è partito il film. Questa fu la prima idea per il film. Una grande stanza buia. E intorno a questa camera oscura sviluppammo la storia che abbiamo poi realizzato. All’inizio tutto è difficile, e alla fine diventa facile.
IE: Come si è articolata la collaborazione con Anatol Schuster? Già per Filmstunde_23 si è avvalso dell’affiancamento di Jörg Adolph.
ER: I motivi di queste collaborazioni sono diversi. In Filmstunde_23 sono sempre nell’inquadratura. Non potevo fare il montaggio da solo. Insostenibile. C’era bisogno di una seconda persona. Del montaggio si è occupato Jörg Adolph. Vedendo il materiale avrei buttato via tutto. Non volevo vedermi sullo schermo. Leibniz ha una motivazione completamente diversa. Se si realizza un film importante all’età di 92 anni, non c’è assicurazione che tenga. I finanziatori pretendono la cosiddetta assicurazione d’indennizzo. Se il regista muore, bisogna essere certi che il film vada avanti.
L’unica soluzione era avere al mio fianco qualcuno che sapesse sempre, con esattezza, cosa stava succedendo. E che potesse intervenire se necessario. Questo è stato il ruolo di Anatol Schuster. Conosco Anatol molto bene, è stato mio studente alla scuola di cinema. Ha funto da assistente per Die andere Heimat. Era sempre presente durante il lavoro di sceneggiatura, sapeva a memoria ogni dettaglio. Inoltre è un giovane regista di successo, ha già realizzato tre film. Questo significa che è più di un semplice assistente. Durante le riprese non mancava mai. Io ero seduto in quella stanza buia, davanti al monitor, e comunicavo con gli attori via radio. Anatol faceva da tramite. Una buona divisione del lavoro.
IE: Qual è stato lo spunto concettuale più importante per il film?
ER: C’è un aspetto della filosofia leibniziana che mi ha sempre interessato, oggi più che mai. Leibniz ribadisce in più occasioni che tutto, in natura, è collegato a tutto il resto. Non si può toccare nulla senza toccare tutto. Tutto il mondo, tutto l’universo è interconnesso. Eppure non esistono due cose uguali. Nemmeno due gocce d’acqua sono uguali. Ecco il punto: tutto è collegato a tutto il resto, ma niente è uguale a nient’altro. Ciò significa che ci deve essere un legame tra ogni cosa. Così, quando parliamo, siamo in qualche modo collegati.
Eppure ognuno di noi è completamente uguale solo a sé stesso. Ora la domanda sorge spontanea: cosa c’è tra noi, adesso? C’è una connessione tra noi? Certo che c’è. Lo sappiamo bene. Noi non siamo solo prodotti dell’oggi, della nostra civiltà odierna. Non siamo solo contemporanei, siamo anche eredi di una stessa storia, del passato. E secondo Leibniz siamo interconnessi per natura. Anche in assenza di legami biografici. In altre parole, tutte le persone sono collegate tra loro e ciò che accade a una persona accade a tutti. Credo sia una bellissima idea per un mondo migliore. Una storia leibniziana che andava raccontata. Tutto questo gli era già chiaro più di 300 anni fa.
IE: Conosce il lavoro dello storico dell’arte Horst Bredekamp su Leibniz e la vitalità delle immagini?
ER: Sì. Ho amato molto i suoi libri, e grazie a lui ho potuto sviluppare l’idea del rapporto tra filosofo e pittrice. Ieri [alla prima del film presso la Haus der Berliner Festspiele] Horst Bredekamp era presente, e abbiamo parlato a lungo. Sono felice che il film gli sia piaciuto. Una bella opportunità: non c’è miglior esperto di Leibniz. In un passo scrive che, raccontando, si mettono al sicuro i ricordi. L’ho riletto proprio oggi.
IE: Qual è il suo rapporto con la memoria?
ER: Bella domanda. C’è una scena chiave nel nostro film che affronta questo tema. È il dialogo sul tempo tra Leibniz e Aaltje. Lui dice che nella superficie della tela non c’è tempo. Una concezione matematica, geometrica. Ma lei risponde che nel quadro il tempo c’è eccome. C’è la nostra vita, il tempo che abbiamo impiegato a dipingerlo. Ogni giorno che abbiamo trascorso insieme nell’atelier è contenuto nel quadro. E anche molto di più: la nostra stessa storia. Perché se non avessimo pensato a questa o quell’altra cosa, se non avessimo fatto una certa esperienza, il quadro sarebbe diverso. Oltretutto, esso comprende anche il tempo della terra. La terra che ha prodotto i pigmenti. Nel profondo del sottosuolo, schiacciati dalla crosta terrestre, nacquero i meravigliosi pigmenti con cui sto dipingendo. Anche la terra è coinvolta nel dipinto. Così si può guardare il quadro in una maniera completamente nuova.
E ciò che vale per la pittura vale ancora di più per il cinema. Perché il cinema è un’arte contemporanea. Ovvio, già prima dell’invenzione del cinema esistevano arti pregne di tempo. La musica, la letteratura, il teatro. Ma nel cinema il tempo diventa medium. Il cinema racconta le storie mediante il tempo. L’immagine in movimento è il medium filmico. Ed è per questo che il cinema non è solo un’arte del tempo, è movimento nell’ambito del tempo. Per noi, una nuova prospettiva esistenziale. Possiamo, per così dire, riesaminare la nostra intera memoria con l’aiuto del cinema. Ai tempi di Goethe, per ricordare la propria giovinezza c’erano parole, forse dipinti, magari qualche oggetto conservato. Ma oggi ogni bambino disporrà delle immagini dei suoi primi passi. Un video, un filmato amatoriale. Oppure i grandi momenti della storia.
Le immagini dei terroristi che si schiantano nelle Torri Gemelle. L’immagine di John F. Kennedy che viene ucciso. È il film della nostra società. Ciò crea una consapevolezza completamente diversa. La questione della memoria ha assunto una dimensione nuovissima. Il documentarista francese Chris Marker diceva che di non sapersi immaginare come ricordasse, l’umanità, prima del cinema. E io la penso allo stesso modo. Non posso sapere come fossero i ricordi prima dell’invenzione del cinema. Un cambiamento radicale. Qui s’incontrano tempi diversi. Davvero affascinante. Facendo questo film mi sono sentito più esploratore che pensatore. Ogni giorno ho scoperto qualcosa.
Leggi la recensione di Leibniz – Chronicle of a lost painting