Slimane torna nello spazio dei vivi ogni notte. Si siede al piano, suona la sua musica e scambia due parole con la moglie Lucie. Talvolta l’abbraccia in una stretta gioiosa che sembra un passo di danza.
Suicidatosi per imprecisate pressioni sopportate durante l’esercizio delle sue funzioni come poliziotto, è una presenza costante che consente alla donna di rielaborare la propria esistenza e tutte le dinamiche relazionali interne ed esterne al contesto lavorativo. Anch’essa poliziotta, si affida alle radici cultuali del marito, rivelando la continuità e la compresenza tra il regno dei morti e la dimensione sociale dei viventi.
Ciò che non è comprensibile fuori dall’Africa in una società secolarizzata, affiora dalle foto disseminate nell’appartamento di Lucie e che documentano i numerosi viaggi della coppia nel continente.
In quello che alla critica internazionale è sembrato il film più fragile e inconsistente di André Téchiné, c’è in realtà un lento e radicale sottrarsi del soggetto dalla centralità della vita percepita, per farsi fantasma e sovrapporre la cura amorosa con l’intangibilità del gesto.
La “gente” che si stabilisce nell’appartamento adiacente, consente a Lucie di attivare nuove parentele e di sostituire Julia e Yann nell’accudimento della piccola Rose. Confidente, sorella e madre per l’intero nucleo, è costretta ad un semianonimato per non spezzare questa nuova armonia.
Yann, ritrattista di talento, è un anarchico coinvolto in alcuni procedimenti penali e già noto alle forze dell’ordine locali, mentre Lucie è spesso incaricata di schedare i soggetti più violenti fermati durante le rivolte urbane.
Evidente quanto a Téchiné importi poco o niente descrivere le tensioni sociali di una città sotto assedio, quanto cogliere il progressivo scollamento della realtà interiore con i microsistemi sociali di riferimento, qualsiasi essi siano.
Per Yann sbarazzarsi di un intero arsenale diventa vitale quando la pressione del movimento rende impossibile la piena espressione della sua arte e dell’amore per la famiglia. Per Lucie, aiutarlo violando la legge e il codice di appartenenza alla divisa, è un gesto altrettanto pregnante che crea una cesura netta tra logiche affettive e ruolo istituzionale.
Téchiné azzera lo stile, lo avvicina alle forme funzionali della documentazione, scompare dietro una tenda insieme al personaggio interpretato da Isabelle Huppert e mostra la sostanza di tutte le relazioni come impossibile attraversamento di una soglia.
Mentre Lucie aderisce ai piccoli rituali della detection per osservare a distanza i movimenti di Yann e indagare sulla provenienza della sua auto, dai margini di un’identità che non può rivelare sostituisce le funzioni genitoriali della coppia, instaurando la comunicazione d’amore più pura possibile, quella con l’infanzia.
Figura ossimorica, si ritrae fino ad assumere lo stesso punto di osservazione di Slimane, quello di una creatura di confine che può donare accudimento e dedizione senza toccare, senza esser vista, definendo così per assenza tutto l’amore umano che manca.
Nella conclusiva immagine allo specchio dove Lucie è ormai ectoplasma anche per disposizione di legge, il confronto a distanza con la piccola Rose mentre il confine marittimo separa la reciprocità degli sguardi, è una straordinaria immagine di compresenza temporale. L’infanzia e la vecchiaia, la potenzialità della vita e quella della morte, coesistono in profondità nei piani dell’immagine cinematografica.
Non è semplicemente una nostalgia senile quella dell’ottantenne Téchiné, ma il riconoscimento di un atto d’amore attraverso l’immagine dell’assenza e le funzioni della distanza.
Un’immanenza markeriana che riflette sulla relazione flagrante e intercambiabile tra passato e presente.
Quanto questa semplice e potente “Immémoire” possa consentirci di ripercorrere i modi e i gesti attraverso i quali abbiamo amato, rientra nei ritrovamenti soggettivi del proprio cristallo temporale.
In una frase, nella nostra capacità di com-muoverci, da spettatori critici o meno, anche di fronte ad un’immagine così rigorosamente fuori dai canoni seduttivi dell’efficacia estetica coeva.
Les gens d’à côté (My New Friends) di André Téchiné (Francia 2024 – 85 min)
Interpreti: Isabelle Huppert, Nahuel Pérez Biscayart, Hafsia Herzi, Romane Meunier
Sceneggiatura: André Téchiné, Régis de Martrin-Donos
Fotografia: Georges Lechaptois
Montaggio: Albertine Lastera
Musica: Olivier Marguerit