Terrazze di Algeri, abitazioni abusive sul tetto di palazzoni a Bab El-Oued e altri quartieri popolari di condomini affollati e fatiscenti. Poco resta della “città bianca” di Camus e Pontecorvo, arrampicata sulla costiera che scende verso la baia dal mare azzurro di lapislazuli.
Algeri appare e scompare in panoramiche fulminee, a far da cornice ai cinque richiami giornalieri del muezzin che si diffondono in onde sonore dall’alto dei minareti.
Algerino naturalizzato francese, Merzak Allouache porta nel suo cinema di confine lo stigma di tanti del suo paese e della sua generazione, stretti tra istinto di fuga e bisogno di appartenenza, dopo aver vissuto il regime coloniale e la guerra di liberazione come processo di formazione e iniziazione alla vita.
Film low budget girato in poche settimane, Les terrasses, in concorso a Venezia70, segue per un giorno intero i protagonisti di cinque storie indipendenti tra loro, tragiche o anche solo amare, colte in divenire, senza inizio né fine, l’unico legame ad unirle è la collocazione sopra la città.
La scelta delle terrazze come location ha ragioni che appartengono alla genesi stessa del film, nato da una vicenda personale di separazione vissuta con la rabbia triste dell’esule volontario da un mondo che ama e di cui vede la decadenza inesorabile.
Teso a mostrare una città che sembra aver perso la memoria storica, luogo divenuto spazio di nostalgia da cui fuggire, dalle storie che Allouache allinea su quelle terrazze emana forte il senso del vuoto che non può contenere la speranza.
Dall’alto dei tetti guarda cosa è successo al suo Paese, lo spazio dei terrazzi è un dentro che è anche un fuori, e tutto diventa pubblico, si rovescia all’esterno senza mezze tinte.
“La trasformazione di terrazzi in abitazioni è cresciuta in Algeria. Ho visitato più di 60 terrazze ad Algeri per girare questo film. Abbiamo incontrato a volte difficoltà ad ottenere i permessi. Non sapevamo molto bene chi gestisse queste terrazze. Essi non appartengono più ai residenti del palazzo, ma a coloro che vi si stabiliscono.”
Denominatore comune è il senso di una tragedia collettiva che non ha voce per esprimersi come tale e finisce così nel grottesco o si consuma nell’indifferenza.
Vite in bilico, figure di un presente effimero come lo spazio in cui si trovano, recano tracce e cicatrici del passato di cui sono il prodotto.
Un vecchio semi impazzito, reduce dalla rivoluzione di tanto tempo prima, è tenuto in catene in una specie di gabbia per polli a cui si avvicina solo la nipotina per dargli da mangiare, mentre lui le racconta in un loop allucinato la sua storia di combattente; nel gruppo di meditazione sul Corano che arriva col buio c’è anche chi frequenta solo per spacciare più facilmente droga; un povero diavolo subisce la tortura dell’acqua nello scantinato per regolare qualche conto di cui non viene detto nulla; un padrone di casa senza pietà sfratta tre poveri cristi, nonna, madre e figlio drogato, con storie di violenza alle spalle; l’uccisione dell’uomo a colpi di padella in testa da parte di una delle donne si colloca nel registro del grottesco più che del tragico, e il vecchio poliziotto in pensione, che ha capito tutto e suggerisce di buttare a mare il cadavere perché va bene così, è in perfetta sintonia con il clima surreale in cui si svolgono i fatti.
Storie di ordinaria follia e vite qualsiasi s’intrecciano senza un ordine apparente, mentre su quelle terrazze si accumula tutta la spazzatura che una città può produrre quando ha smarrito i termini più elementari del contratto sociale.
Eppure, imprevedibilmente, resta anche un piccolo spazio dove la pietà sopravvive e l’amore nasce comunque.
E c’è la musica, quella di una band di giovani che si riuniscono lì a provare, e non si sa da dove vengano nè dove finiranno dopo.
C’è il caos della vita, che scorre in una terra di nessuno nata sopra una città che non ha più la forza rivoluzionaria di un tempo né la bellezza regale di cui andava giustamente fiera.