lunedì, Dicembre 23, 2024

Leviathan di Andrej Zvyagintsev: recensione

Miglior sceneggiatura al Festival di Cannes 2014, Golden Globe 2015 per il miglior film straniero, Leviathan di Andrej Zvyagintsev è una cupa parabola sulla sorte dei vinti, relitti che la Storia trascina alla deriva e abbandona all’erosione del tempo, come lo scheletro di balena spiaggiata steso a riva o le barche sfondate, immobili nella rada solitaria, lontane dal respiro furente del mare dietro lo sperone roccioso di Teriberka, piccolo villaggio nella penisola di Kola sul mar di Barents dove vive Kolya (Aleksey Serebryakov).
Per lui la casa di legno con la veranda che guarda il mare e il piccolo laboratorio dove lavora da meccanico sono la vita ed è tutto quel che ha.
Kolya non ha ambizioni, vuol solo vivere lì con Roma (Sergey Pokhodaev), il figlio adolescente avuto dal primo matrimonio, e la giovane Lylia (Elena Lyadova), seconda moglie che ama con burbera tenerezza. Un’ingiunzione di sfratto vuol togliergli quel mondo costruito dai suoi nonni, il suo spazio vitale fa gola a palazzinari locali e la collusione fra i poteri forti dello Stato sta per abbattersi su di lui senza lasciargli scampo. Ma l’uomo è caparbio, è vissuto a lungo sotto le armi dove si è costruita addosso una corazza coriacea, dunque non si rassegna e tenta una resistenza tanto ardua quanto inutile.
Un amico dei vecchi tempi, Dmitriy (Vladimir Vdovichenkov) ora buon avvocato a Mosca, tenterà di aiutarlo con il ricorso ad una giurisprudenza che mostrerà di non avere spazio là dove vige l’ ordine precario e altamente conflittuale della lotta di tutti contro tutti. Kolya è un vinto, lo Stato con le sue leggi, codici e codicilli indecifrabili, è un potere oscuro che lo sovrasta e a cui è inutile opporsi. Sarà anzi proprio il suo misero tentativo di rivolta ad innescare una catena di eventi lungo i quali la sua vita precipiterà in caduta libera, come su un piano inclinato.
La lottizzazione selvaggia che nulla risparmia, neanche a latitudini iperboree, allungherà il braccio d’acciaio della ruspa sulla casa con tutte le sue memorie dentro, e nella sistematica furia devastatrice si porterà via, frantumandoli, oggetti, vite e destini in un’ arbitraria quanto inarrestabile affermazione della legge del più forte.
Fra i muggiti delle onde che si rompono sulle coste scoscese di quel mare color acciaio , la casupola di legno lascerà il suo posto all’opulenta Chiesa ortodossa, in nome della quale potere laico e potere religioso confermeranno l’eterno patto di alleanza. Si consuma così la vicenda amara di un uomo che non troverà più parole per maledire Dio nè preghiere per perdonarlo, solo la forza di mandar giù l’ennesimo bicchiere di vodka.

Ma quale mutazione è avvenuta nel tempo fino a rendere irriconoscibile “… quel grande Leviatano, quel Dio mortale al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa “ ? A schiacciare Kolya non è quella trasfigurazione simbolica del contratto sociale stipulato a difesa della dignità del lavoro, della liceità dell’arricchimento e della logica del profitto che Hobbes teorizzò tre secoli fa.

I principi di quell’etica post-feudale che avevano connotato il Leviathan hobbesiano come giustificazione teoretica del diritto assoluto, finalizzato alla tutela del corpo sociale, qui hanno subito la sconcia manipolazione di una società priva di etica, dominio incontrastato di arbitrio e violenza in un connubio cinico ai danni del debole.
Il Leviathan che colpisce Kolya non è neppure quel biblico mostro di fronte al quale Giobbe si piegò, riconoscendolo simbolo della potenza divina.
In questo universo nero che Zvyagintsev mette in scena la parabola biblica subisce uno scarto significativo.
Kolya è figlio di un’era post-moderna che lo priva di ogni aureola. Più nulla c’è in lui di quel Giobbe che si incarna in Mendel Singer, struggente icona dell’ ebraismo mitteleuropeo a cui Joseph Roth mise in bocca parole di fuoco: “Dio voglio bruciare … Dio è crudele, e più gli si ubbidisce, più ci tratta con severità … Solo i deboli ama annientare. La debolezza di un uomo eccita la sua forza e l’ubbidienza risveglia la sua ira .”

Quel Giobbe d’inizio secolo trovò il suo riscatto che gli permise di “riposarsi dal peso della felicità e dalla grandezza dei miracoli”, la sventura si abbattè su di lui per salvarlo e, come il precursore biblico, raddoppiare la sua fortuna. Non così Kolya del mar di Barents, un uomo fiaccato dalla Storia, reduce da un secolo di barbarie inesprimibile, ammantata dei falsi miti di civiltà e progresso. A padre Vasily, il pope del paese che gli racconta quella edificante storia biblica perché sopporti fiducioso le prove che Dio gli manda dirà: “E’ una favoletta? Dio mi ridarà la mia casa e mia moglie?”.

Solo la vodka sarà la sua compagna fedele, e l’unica parola che riuscirà a pronunciare quando la sua storia si chiuderà senza speranza di redenzione sarà: “Perché?”.

Film sempre al limite estremo della tensione, diviso fra gli scenari apocalittici della natura selvaggia del luogo e il grigiore mortifero di un’umanità fatta di vittime e carnefici, nel registro caricaturale e sarcastico trova la sua cifra migliore. Meno convincente l’intento che avvertiamo a porsi come manifesto della condizione umana tout court, ambizione non sempre suffragata da una riflessione incuneata abbastanza a fondo nei parametri del pensiero e della prassi sociale.

Tuttavia il teatrino di politici corrotti, ecclesiastici benedicenti e collusi col potere, palazzinari d’assalto, forze di polizia compiacenti e magistrati messi a leggere ridicole sentenze ad una velocità ultrasonica degna di slapstick più che di aula di tribunale, è uno scenario di netto stampo espressionista che merita ogni attenzione.
Maschere di una messa in scena del potere che sovrasta e trascende il piano individuale delle relazioni, dei conflitti e delle tensioni, quei personaggi tratteggiati a tinte forti sono specchio di una condizione storico/sociale che resta ben ancorata ad un presente su cui la Storia ha posto pesanti ipoteche.
La Storia, “un incubo da cui vorremmo risvegliarci” come proclamava un giorno Joyce, è quella della Russia di Putin, dei capitali facili e in odore di mafia, delle tensioni sociali che culminano in arbitri di Stato come il caso Femen/Pussy Riot, di cui sbirciamo qualche fotogramma in un notiziario.
C’è in Leviathan un presente devastato, approdo vergognoso di una cultura che conserva tuttavia ancora chiari i segni  di un culto del sacro e di una spiritualità che hanno radici lontane.

Nella dostoevskiana ricerca delle motivazioni oscure dell’agire umano riesce infatti a rivendicare ancora, e nonostante tutto, l’appartenenza alla Gran Madre Russia di sempre.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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