È difficile non scorgere una rilettura molto personale del dissidio Blatty/Friedkin nel nuovo film di Scott Derrickson. “Deliver us from evil” trae ispirazione da alcuni segni di entrambi i percorsi e reinventandoli in un contesto antropologico diverso, rileva la presenza del male dentro e fuori dall’animo umano.
Non è semplicemente il prologo Iracheno, di cui tra l’altro ci viene presentata una versione visionaria e ambigua, quasi fosse un’interpretazione libera e per certi versi più complessa di quel “male contro male” di cui è testimone Padre Merrin, ma sono i luoghi, le visioni, i segni e le parole che Derrickson sembra rielaborare, spesso complicandone il senso, a partire da “The Exorcist” di William Friedkin e dall'”Esorcista III”, il capitolo diretto dallo stesso William Peter Blatty, quello più filosofico e letterario di tutta la serie, e da cui “Liberaci dal male” sembra prelevare lo spirito di alcuni dialoghi tra George C. Scott e Ed Flanders quando mette a confronto la visione di Ralph Sarchie , il poliziotto interpretato da Eric Bana, con quella di padre Mendoza, il prete esorcista dal passato controverso (Édgar Ramírez).
Quelle dell’uomo di legge e del religioso, sono due figure molto vicine all’universo letterario dello scrittore americano e che trovano un riferimento ideale nel personaggio del colonnello Vincent Kane de “La nona configurazione”, ex marine, psichiatra, costantemente alla prova in un percorso di agnizione che gli consentirà di riconoscere il male, la violenza e la vendetta fuori e dentro di se; figura che con la sua complessità sembra attraversare molti dei personaggi di “Liberaci dal male” sospesi tra perdizione e redenzione, incluso Santino, incarnazione di un male primigenio che Derrickson osserva con sguardo dolente.
Ma non c’è solo questo, perchè la mancanza di misura e il disequilibrio tra parola e immagine, due elementi che caratterizzano la scrittura tra dramma e documentazione di Derrickson e Paul Harris Boardman (in questo caso la fonte biografica dello stesso Sarchie, nel libro “Beware the Night“), fino al lavoro fatto per Atom Egoyan in Devil’s Knot, esplodono definitivamente in questo nuovo film del regista di Denver, il suo più ambizioso, selvaggio e stimolante, proprio per il modo in cui la relazione tra immagine e parola e quella tra “generi”, deragliando fuori dai bordi, si fa carico di sconfinamenti e ibridazioni che spingono la riflessione oltre la superficie funzionale, tanto per fare un esempio, di titoli sopravvalutatissimi come The Conjuring.
Se nel film di James Wan i luoghi famigliari sono un territorio adatto ad un cinema illusionista, quando Derrickson da vita all’inanimato lo fa con un’attenzione allo spazio e al dettaglio capace di generare immagini ambivalenti tra realtà e astrazione, molto vicine alla psiche infantile e a quella libertà visionaria che è presente, proprio da questo lato dello sguardo, in una sua recente produzione, Incompresa di Asia Argento.
Allo spazio dialettico di The Exorcism of Emily rose, e a quello famigliare e mnestico di Sinister, subentra una geografia urbana infernale che Scott Kevan immerge in una fotografia livida e notturna, una scelta espressionista che consente a Derrickson di mettere in relazione il centro visibile dell’immagine, con l’oscurità ai margini dell’inquadratura all’interno di un contesto cittadino concepito come luogo sospeso tra la vita e la morte. È un procedimento non dissimile dal contrasto che in Sinister si articola tra il tempo dell’immagine analogica e quella digitale, con uno scambio semantico che individua il luogo dello slittamento di senso in un’orchestrazione compositiva più ricca e probabilmente più cinematograficamente classica rispetto al regime esplicitamente metadiscorsivo del film precedente. Il risultato è immersivo e coinvolgente, una quest dell’anima che trae linfa dalle numerose storie reinventate del cinema “noir” americano, e che Derrickson sfrutta con una marcata propensione combinatoria, cambiando registro senza troppa paura e trattando ogni elemento del discorso, parola, segno, luce e musica, come punti di rottura e di riallocazione del senso, in una direzione anche “ironica”, che era già nei motti di spirito della scrittura Blattyana, vero e proprio strumento dialettico di comprensione del reale.
Sul valore della parola, è lo stesso regista americano ad aver confermato in alcune interviste, il legame con il potere evocativo della stessa; è una prospettiva esplicitamente cristiana che individua nel verbo l’origine del mondo e il potere di creare o distruggere l’esistente. In “Liberaci dal male” i segni di una lingua tra latino e persiano, sembrano alludere ad un conflitto e una stratificazione tra culture, e allo stesso tempo fanno parte di una complessa presenza del linguaggio che dalla parola scritta, passa all’evocazione, alla suggestione psichica, al fonema pre-semantico. Ci riferiamo alle registrazioni degli esorcismi che Mendoza fa ascoltare a Sarchie, ma anche alle voci che abitano la mente dello stesso poliziotto, le scritte e i segni sulle pareti, continuamente cancellate oppure disvelate, grattate o riprodotte dagli schermi digitali; un contrasto traumatico tra voce e parola, dove la prima spesso invade la seconda sopraffacendola, frantumando il discorso in una rappresentazione del male come assenza di logica.
E non è un caso allora l’utilizzo di “Break on through (to the other side)” dei Doors come chiave di ingresso tra i due mondi, non si tratta, banalmente, di un’apertura verso una percezione “altra”, ma è il luogo possibile della parola stessa, evocazione che solamente il potere della scelta può cambiare di senso. Pur mantenendo una forte e stimolante ambiguità sul percorso dei propri personaggi in una forma non riconciliata che si avvicina al laicismo Friedkiniano, da cui Derrickson sembra interpretare in modo molto stimolante lo scambio continuo tra bene e male e anche tra realtà mondana e percorso interiore, la visione di Derrickson è tutt’altro che agnostica, e si avvicina alla militanza di William Peter Blatty nell’incessante ricerca di quello spazio che risiede tra ragione e fede, vita e morte. Ne sono esempio da una parte l’immagine ricorrente del male interiore, quel volto insanguinato che Sarchie vede come flash subliminale e che ripercorrendo il tormento di Padre Karras, rileva un diverso livello di significato legato all’espiazione personale, ma anche tutti quei corpi martoriati, putrefatti, deformi, oppure schiantati, come quello di Jane (Olivia Horton), la posseduta indotta al suicidio, e che Derrickson inquadra con uno sguardo doloroso, lo stesso che concepisce l’esorcismo finale come una durissima pratica di guarigione. Disturberà molti, ma nell’intelligenza di uno sguardo per niente ortodosso, c’è ancora spazio per la vita.