“Quand’è che il mondo sarà più equilibrato?”
“Quando ci saranno più donne”
È una delle tante, acute, spesso spiazzanti domande che Rag (una sorprendente, giovanissima Anna Pniowsky) rivolge a suo padre mentre insieme si spostano, guidando l’uno l’altra e viceversa, tra i grovigli di una natura realisticamente impervia, tra i rottami della civiltà umana, oppure guardandosi occhi negli occhi al lume di una luce fioca. Tutt’intorno un buio accogliente, riparo ancestrale.
Occhi negli occhi a raccontarsi una storia sempre nuova e sempre identica che, nonostante i moniti tra l’indispettito e il divertito di Rag a non parlare di lei, trasfigura in favola il suo spirito tenace, il suo intelletto brillante, e pure l’immenso amore di un padre la cui ragione di vita è portarla in salvo, tenerla al sicuro.
Sono minuti, questi di iniziale vis-à-vis nel grembo fidato della tenda, che indicano la cifra tonale di Light of my life, primo film di finzione diretto dall’anche interprete e sceneggiatore Casey Affleck: sembra imboccare un sentiero battuto e ribattuto da tanto cinema e letteratura anglosassoni – siamo dalle parti di The road – solo per abbandonarlo tracciandone uno proprio in cui la distopia post-apocalittica non sia occasione per disegnare i confini di una nuova wasteland ma, comunque imprescindibilmente nell’evidenza del gioco di rispondenze con l’oggi, pretesto per mettere in scena l’intimità di una resistenza privata che trova nel rapporto ombelicale padre/figlia la sua più compiuta espressione.
Una Piaga da cui Rag è immune ha sterminato la maggioranza della popolazione femminile, le poche bambine rimaste sono ipotetiche prede – sessualizzate – di uomini superstiti e spersonalizzati che si muovono come ombre e bussano alle porte capaci di indicibili violenze. Rag è costretta a vestire panni di bambino per tentare di schivarli. Con suo padre è questo che fanno: nascondersi. Scappare, sottrarsi alla brutalità, nascondersi. Soprattutto raccontare, raccontarsi.
Affleck si dimostra allora l’abile storyteller di una duplice narrazione, quella che struttura il film e quella portata avanti dal suo personaggio. Mai stucchevole nell’uno come nell’altro caso – l’estrapolazione della citazione dal contesto annichilisce la misura precisamente contingente e insieme universale di ogni confidenza – riesce nell’intento di dire qualcosa di incisivo parlando di altro.
Light of my life entra nel genere che lo contiene abdicandovi sin da subito per accarezzare la traccia di un percorso interiore che sostiene l’affermazione dialogica della propria identità attraverso l’esercizio lenitivo e fortificante della parola.
La colluttazione con il mondo in fiamme, pur tra le nevi di un non luogo che è qualsiasi luogo, occupa unicamente lo spazio dell’etica comportamentale in conflitto con quello dei principi morali, in un ultimo, necessario corpo a corpo che garantisce l’iniziazione a una piena consapevolezza di sé, prepara a una stretta tenerissima e potente che ristabilisce l’equilibrio di maschile e femminile.