Con la Battaglia delle cinque armate si chiude la trilogia de “Lo Hobbit”, considerata dai puristi Tolkeniani come eccessiva e per certi versi inutile; non si perdona a Jackson l’espansione del materiale originale fino a raggiungere il livello di un vero e proprio tradimento, una libertà creativa estesa alle caratteristiche di alcuni personaggi marginali e che in questo ultimo capitolo, quello paradossalmente più rigoroso, si verifica con modalità completamente diverse, prima di tutto mediante alcuni innesti utilizzati come anticipazioni degli eventi descritti ne “Il signore degli anelli”, così da creare una relazione transmediale tra le due trilogie, fedele e infedele allo stesso tempo, ma principalmente attraverso il dispiegamento di un’imponente battaglia descritta come processo unificante che contrappone visione totalizzante alla definizione del dettaglio, così da chiarire ruolo e posizione dei numerosi personaggi.
È una scelta indubbiamente più visionaria e non del tutto anti-narrativa come ci è capitato di leggere, semplicemente perché Jackson sviluppa gli elementi del racconto attraverso una complessa dinamica interna all’azione, organizzando le digressioni dei film precedenti nei blocchi alternati del conflitto, a sua volta delineato da un amalgama che concorre a creare la forma e il flusso di un cinema estremo senza più margini.
Può non piacere, oppure sembrare sterile o ancora peggio lo scacco di un’immagine che punta ad una dimensione colossale, crollando rovinosamente sul proprio statuto.
Tutto possibile, se consideriamo l’ossessione divorante che ha inghiottito lo stesso Jackson in un progetto con le proporzioni misurabili solo nel contesto di una sfida personale, un territorio la cui esclusiva paternità non appartiene ormai solamente a Tolkien e che individua nella figura del regista neozelandese uno sdoppiamento tragico, quello del successo e della disfatta.
Allo stesso tempo, Jackson, sopratutto con questo capitolo della saga, condivide le scelte performative del nuovo cinema digitale di Bay o di Snider, la sensazione che guardi al suo passato, quello di un’arte creaturale e cartoonistica, è un falso appiglio. Già in King Kong, il precipitare furibondo di mostri e rocce, era a favore di un utilizzo selvaggio e delirante della manipolazione CGI, immagini tagliate con l’accetta e agglomerate nella massa in movimento, una confusione tra corpo prostetico e spazio virtuale che nelle due saghe Tolkeniane raggiungerà altri estremi, fino ad una conclusione che non poteva essere diversa, proprio nell’esasperazione di queste stesse caratteristiche.
Tutta la drammaturgia viene quindi ridotta all’osso ne “La battaglia delle cinque armate”, versione essenziale e visionaria di una tragedia Shakespeariana la cui origine è nell’incubo di Thorin, posseduto dalla “malattia del drago” e risucchiato da un pavimento fatto d’oro senza più limiti dimensionali, un elemento presente anche nel materiale originale ma che Jackson rielabora con i suoi mezzi in una versione immaginifica e visceralmente allucinatoria.
La battaglia esplode come espansione di questo concetto; evento scaturito dall’avidità e dalla perdita del controllo, è il cuore nero di un’architettura narrativa sottoposta a sfaldamento, ma concepita allo stesso tempo secondo precisi rapporti geometrici che mettono in relazione il particolare con l’universale, la visione d’insieme con il dettaglio, il fuoco che distrugge Laketown con i volti dei sopravvissuti.
E al posto di Tolkien, l’arte visuale di Alan Lee & John Howe con quella digitale di Peter Jackson.