“I’m alone, really-with my back to the wall fighting the world-and I get sort of gaspy when I think about it. I put it out of my mind, and keep on pretending”
(Jean Webster, Daddy-Long-Legs, 1912)
Il cuore nero della famiglia, ancora una volta suscita l’interesse di Osgood Perkins.
Il suo quarto film come regista riprende un percorso interrotto solo parzialmente con Gretel & Hansel, per esplorare l’ambiente suburbano statunitense con l’insistenza contemplativa che caratterizzava The Blackcoat’s Daughter e I am the pretty thing that lives in the house.
Le case, i loro interni, gli oggetti che conservano l’aura del passato, aprono un dialogo perturbante tra la coscienza dei personaggi e l’inanimato, lasciando passare la presenza ineludibile del male.
La falsa soggettiva è il movimento di macchina che segue costantemente le azioni dell’agente Lee Harker, sguardo disincarnato, occhio senza pupilla capace di sorprendere lo spaesamento dei soggetti.
Il feedback che sentiamo sin dall’inizio e che si confonde con il rumore bianco degli ambienti è una condizione interiore che si manifesta attraverso la presenza della saturazione elettrica.
Elettrica è la voce di Longlegs, l’inquietante maschera interpretata da Nicolas Cage, quasi che le sue parole avessero la consistenza materica restituita da un microfono troppo vicino o dalla distorsione nasale causata dal pesante makeup.
Elettrico è lo spirito dei T.Rex, la cui presenza testimoniale accorda le vibrazioni e lo spirito irrazionale del film.
Se anche provassimo ad individuare le consonanze tra le liriche di Get it on collocate in esergo, i caratteri indecifrabili vergati da Longlegs e le citazioni dall’Apocalisse di San Giovanni, l’unica combinazione logica sarebbe quella dell’allusione, troppo vicina all’autosuggestione.
Eppure c’è una traccia potente che lega tutti questi elementi tra di loro, per le modalità combinatorie con cui Perkins riesce a mettere insieme elementi di cultura pop, morfologia della fiaba, citazioni cinematografiche, riferimenti religiosi ed infine forza politica, tanto da condurre il suo film in un territorio libero e sconosciuto rispetto ai canoni dell’horror contemporaneo, dove è in gioco la nostra stessa capacità di riconoscere il radicamento del male nella vita comune e individuale.
Poco importa che stampa e critici pigri citino solamente Zodiac e Il Silenzio degli Innocenti, modelli evidenti e tra l’altro ricercati per disattenderne i presupposti.
Si parlava delle false soggettive, le stesse che scrutano Lyly dal passato fino al futuro, all’interno dell’abitazione costruita in Teacup Road nel secondo film del regista americano.
Queste a un certo punto verranno assegnate alle bambole sataniche costruite da Longlegs per portare a termine il suo piano di distruzione del sistema famigliare senza sporcarsi le mani di sangue, ma prima di questa rivelazione Hoffmanniana dove l’inanimato seduce e inganna i sensi grazie alle frequenze di una sfera vuota, la successione dei massacri domestici ci viene mostrata dall’occhio vitreo dei giocattoli inanimati come se si trattasse della casa stessa o di un dispositivo di sorveglianza che improvvisamente cattura la furia cieca della violenza.
Lo strato metatestuale interroga il nostro stesso scrutare le vite altrui, attraverso la moltiplicazione degli schermi mediali e quella saldatura oscena tra l’occhio televisivo e le scene del crimine.
Tutte le soggettive che collocano l’agente Harker in spazi alieni, dagli appartamenti smantellati alla camera di una bimba, fino alla casetta di legno dove abita e lavora, descrivono certamente la sua solitudine interiore, caratterizzata da Perkins con la consueta cura per il dettaglio minimo, all’interno di quella relazione tra presenza umana e l’idea degli ambienti come organismi viventi. Ma non solo questo, perché l’occhio che la scruta può essere compreso solo con una ulteriore espansione del campo visivo.
La traccia matrilineare, ancora una volta, né positiva né negativa, mette a confronto genetrice e creatura con un patto inscindibile tra protezione e rifiuto.
La madre di Harker, messaggera di satana tramite i manufatti di Longlegs, porta la morte nelle famiglie per salvare la propria, ma quando si scaglierà contro la figlia nel momento della “verità”, rifiuterà con ferocia l’appellativo di “Mamma”.
C’è tutto il peso di un percorso reciprocamente negato, come se l’esser figli fosse una tragica esperienza manipolatoria da cui emanciparsi ed esser genitori una rinuncia crudele alla propria individualità, anche quella più oscura.
Del resto, chi è e da dove viene Longlegs, sul cui background Perkins e Cage si sono divertiti a costruire una mitopoiesi eccedente ed estranea al testo filmico stesso.
Oltre alle bambole del suo laboratorio e allo scatto di George Harrison attaccato sopra il letto e che ritrae Marc Bolan per l’artwork di Slider, a definire le sue origini tragiche è quel grido straziante pronunciato al volante della macchina, di ritorno da un negozio di ferramenta locale.
Mamma, papà, disfatemi e salvatemi dall’inferno della vita.
L’anthem negativo dei Green Day intitolato “Unmake me” è un esempio della capacità di Perkins di decontestualizzare un frammento di cultura pop, per sfruttarlo in funzione poetica.
Quel grido ci consente di leggere la stessa devozione per Satana come un processo inverso rispetto alla creazione, necessario per attivare un riassorbimento della sofferenza filiale nel nulla identitario.
E la maschera di Cage può essere allora quella di un artista fallito, di un clown marcescente, uno di questi che si è esibito sulle lunghe gambe di legno in una fiera di paese, adesso dimenticato ed escluso dalla vita comunitaria, costretto a fare l’artigiano, come un Geppetto malvagio.
Mentre la triade Get it on, Jewel, Planet Queen, i tre brani dei T.Rex inseriti nel film, allude a vari livelli di possessione erotica e psichica, ma anche a bizzarre relazioni filiali, al netto delle simbologie e del nonsense con cui Bolan amava pasticciare, Longlegs, Lee Harker e la madre Ruth, si avvicinano sempre di più per il dolore che lega ai figli, madri e padri.
L’ultima immagine, con quei colpi a vuoto contro l’identità divisa della bambola, lascia aperta la libertà di scegliere di fronte alla presenza del male, energia trasmissibile che rimette in circolo catene e origini della colpa.
Longlegs di Osgood Perkins (USA 2024, 101 min)
Sceneggiatura: Osgood Perkins
Interpreti: Maika Monroe, Blair Underwood, Alicia Witt, Nicolas Cage
Fotografia: Andrés Arochi Tinajero
Montaggio: Greg Ng, Graham Fortin
Musica: Zilgi (Elvis Perkins)