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Losing Alice di Sigal Avin: recensione della serie Apple TV+

Losing Alice, tra erotismo e neo-noir, la serie ideata da Sigal Avin convince a metà. Disponibile su piattaforma Apple Tv+

Sigal Avin è senza dubbio una figura di prim’ordine nel settore televisivo. La sceneggiatrice, regista e showrunner attiva tra Israele e Stati Uniti ha realizzato numerose produzioni, riscrivendo spesso la percezione di corpi e identità femminili all’interno di alcuni contesti di consumo. Non è da meno in questo senso Losing Alice, probabilmente il suo lavoro più ambizioso, realizzato per l’israeliana HOT3 e proposto in esclusiva su piattaforma Apple TV+.

Scritta nel solco della tradizione neo-noir, già distante da una certa narrazione binaria, la serie elabora elementi conosciuti legati alle dinamiche del desiderio, cercando di trasporne le conseguenze altrove, in un territorio dove l’atto stesso della scrittura possa trasformarsi in un processo generativo e combinatorio.

Introdotto da un segmento tanto onirico in termini cromatici e di messa in scena, quanto brutale, spezza sin dall’inizio la cornice del racconto in una serie di incorporazioni che spostano continuamente l’origine soggettiva della fabula.

Alice cerca di recuperare il proprio centro, perduto lungo una irreversibile crisi creativa, quando l’improvvisa apparizione della giovane Sophie durante un viaggio in treno, smuove nuovamente le sue fantasie e il suo talento di regista. Interpretata da Lihi Kornowski, l’invadente fan, è una presenza ingombrante, una rappresentazione sfrontata dell’erotismo, una sceneggiatrice abilissima, anche delle vite altrui.

Il soggetto che ha scritto, divide e unisce Alice e David, il marito attore, in una complessa stratificazione tra vita professionale e quello scambio simbolico che si verifica quando racconto ed esperienza confondono i piani.
Le storie oltraggiose che Sophie è in grado di creare, influenzano tutte le figure che entrano in contatto con lei, ma allo stesso tempo possono proliferare in un’altra dimensione psichica possibile.

Sophie assume allora il volto cangiante di quella relazione con l’istinto che risiede al di là del codice morale, perché la sua potenziale crudeltà coincide con quella purezza da cui scaturiscono tutte le fantasie, prima che queste siano addomesticate dalle regole di convivenza sociale.
Gioca quindi ad libitum Sigal Avin, procedendo per allusioni e sottraendo costantemente la posizione tra sguardo e “cosa” vista.

Se le improvvise assenze di Sophie, come la repentina comparsa in tutti i luoghi dove potrebbe scatenare l’inferno, contribuiscono a creare le caratteristiche di un personaggio sfuggente e inquietante, è proprio questo improvviso alternarsi di pieni e di vuoti a minare il suo stesso statuto, come principio pulsionale della scrittura stessa.

Sophie è quindi la crisi e allo stesso tempo il serbatoio di benzina, capace di incendiare la creatività di Alice, le fantasie di David, la violenza del mite Tamir. Esiste quindi in una dimensione mitopietica generata non solo nell’ambito del sistema metanarrativo che fa da sfondo all’intera serie, ma anche nei subplot generati dalle combinazioni relazionali tra i personaggi.

Se questo ci impedisce, volutamente, di esprimere un giudizio certo sulle intenzioni manipolatorie della giovane sceneggiatrice che ha disseminato lo script di sesso e sangue più veri della realtà, sono proprio le gradazioni del reale a rivelarsi come continui innesti da un soggetto all’altro.

Senza fare l’elenco impilato di esempi cinematografici, da Roeg a Medak passando per Egoyan, l’idea di Sigal Avin non è investita da una luce nuova, se non per l’esasperazione di una strategia post-moderna applicabile in forma estesa al sistema seriale.

Forza e debolezza di un contenitore che affascina per le potenzialità strutturali, ma ci annichilisce nella macchina celibe della ripetizione grazie a tagli, salti e cesure asfitticamente perfetti, inclusa la scelta di un hyper-pop in linea con i gusti correnti, che imposta sinestesie efficacissime, improvvisi schiaffi visuali, geniali combinazioni ritmiche dove la vita fuori dal dispositivo è inesistente, come le nostre inchiodate agli schermi per un Virus che ci ha bloccato la salivazione in gola.

In una frase, si soffoca, in questa continua e incessante rivelazione di uno schermo dentro l’altro, dove il costante, logoro abisso delle società occidentali è il vedersi visti in un continuo avvitamento scopico.

Allora, più dell’alluce di Sophie ficcato in bocca ad un attonito David che ripropone dinamiche seduttive troppo semplici, erotizza davvero la liberazione delle due donne mentre si lanciano in quella trance ai limiti con la follia, rappresentata dalla sessione di Gaga, quel vocabolario del movimento ideato da Ohad Naharin che elimina dalle classi dove lo si esercita proprio gli specchi e le possibilità della dinamica narcisista del riflesso. L’esperienza di una sensazione corporea perduta e il ritorno all’idea di movimento come ricerca del piacere è una porta possibile, un’apertura grazie alla quale, per qualche minuto, la prigione dei ruoli va in frantumi.

RASSEGNA PANORAMICA
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Critico cinematografico. Si occupa della relazione tra arte e cinema. Ha collaborato con alcune riviste del territorio milanese e con alcune gallerie d'arte.
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