Fascinosa agli occhi di molti quanto invisa ad almeno altrettanti, Lou von Salomé attraversa indomita e indomata – di lei rimane, celeberrima, la foto che la ritrae, Fillide, alla guida del carro cui sono aggiogati Nietzsche e l’anche lui filosofo, fidato amico Paul Rée – il passaggio tra Otto e Novecento con ferrea ostinazione nell’esercizio intellettuale e metodica inosservanza di ogni convenzione sociale. Di genere, si intende.
Tedesca di origine russa, ultima di sei fratelli dopo cinque maschi, trascorre l’infanzia pietroburghese sotto l’egida di un padre benevolo e l’attenzione vigile di una madre padrona; adolescente, spinta dalla memoria del primo – “diventa chi sei” – si avvicina ad Aristotele e Spinoza, in aperto conflitto con l’auspicata, da parte della seconda, vita matrimoniale. Per Lou, irriducibilmente “io”, donna e studiosa, donna e scrittrice, donna e psicologa, è l’inizio dei viaggi europei, degli incontri con i libri, i pensieri, gli uomini.
E’ nell’eco che della sua vicenda questi uomini conservano nelle loro che von Salomé vive, allora come ora: musa fatale per Nietzsche, amatissima fino al morbo da Rilke, stimolo speculativo per Freud.
Cordula Kablitz-Post, documentarista ritrattista all’esordio nel lungometraggio di finzione, ispessisce le fila della narrazione di un sé libero dai vincoli di ogni altrui idea giudicante e, insieme, profondamente libero proprio perché costruito sulla relazione con l’altro, dunque pure con le idee dell’altro: il dialogo in quanto quid costitutivo procede come modulo espressivo dalla sostanza a permeare la forma anche qui, congenialmente alla formazione della regista, attraverso il ritratto, inteso e praticato in qualità di luogo che informa l’immagine della massima quantità di situazioni e segni storicamente rilevanti relativi al soggetto.
Lo sguardo partecipante, sostenuto grammaticalmente dall’utilizzo della macchina a mano, trasmette al montaggio i meccanismi della memoria: gli assi temporali si sovrappongono nel flusso di un eterno presente, andare e venire in un gioco di accostamenti, fratture, oblii, riprese.
Si assiste così alla sovrapposizione degli occhi risentiti di una Lou giovanissima di fronte alla proposta di nozze del suo precettore – ne conseguirà il voto, poi infranto, di rinunciare al dionisiaco in nome dell’esclusività dell’apollineo – a quelli nostalgici ma fieri di una lei ormai anziana agli albori del nazionalsocialismo, a quelli rivolti, sentimentalmente coinvolti, a Rainer Maria Rilke, e ancora, di nuovo indietro, a quelli orgogliosi, sognanti di bambina.
L’accumulo degli assi temporali passa attraverso una messa in scena audiovisiva altamente simbolica, precipuamente finzionale. La pioggia che due volte bagna il viso dopo un identico passaggio liberatorio da un dentro a un fuori, la caduta dall’albero che due volte, pur con una variazione tragica sul tema, segna un precipitare nella volontà di autodeterminazione, la musica che, trait d’union, reitera ossessivamente il discorso sciolto di una voce interiore, sono tutti indici di una rappresentazione che non nasconde il proprio ontologico carattere di interpretazione, corroborato quest’ultimo dall’espediente della cartolina storica a intreccio dei piani.
A Gottinga infatti, nel 1933, di fronte ad Ernst Pfeiffer, ammiratore, paziente, depositario di memorie, von Salomé apre lo scrigno, letteralmente, dei suoi ricordi: l’immagine dipinta riempie lo schermo che anche Katharina Lorenz (interprete di Lou nella fascia d’età tra i 20 e i 50 anni) occupa digitalmente. La differenza di tessitura tra il personaggio e le altre figure denuncia apertamente l’artificio e invita, straniante, a una lettura critica dell’intera vicenda esistenziale.
A una protagonista della propria vita prima che della propria epoca, Kablitz-Post non risparmia la zona del dubbio, del ripensamento retrospettivo. Ma se più di tutto conta il recupero di un profilo vivo e vivido, complice una fotografia luminosa e satura, peccato allora che l’autonomia nell’ambito della sfera privata non sia contestualmente accompagnata, nello spazio del film, da una invece autentica autonomia di pensiero.
Almeno in parte, lo sguardo paternalista cacciato dalla porta rientra dalla finestra, senza per questo azzerare il valore intrinsecamente linguistico della messa in scena.