sabato, Dicembre 21, 2024

Love will tear us apart di Nelson Yu Lik-wai: recensione

La rimessa in scena dei ricordi, tra falsificazione e inganno nella Hong Kong fine secolo descritta da Yu Lik-Wai nel suo primo lungometraggio. La città già vive tra crepuscolo e illusioni elettriche, dissolvendo Storia e identità. La recensione di "Love will tear us apart" per la sezione "Fuori Catalogo" di Indie-eye Cinema

Tra i film realizzati ad Hong Kong alla fine dello scorso secolo, quello di Yu Lik-Wai cattura più di altri la soglia tra nostalgia e futuro per come si inscrive nello spazio urbano.

Seguendo una traccia già definita dal cinema di Hou Hsiao-Hsien, il regista cinese descrive un mondo fluttuante le cui tracce passate sono incorporate negli oggetti, nelle pareti incrostate dall’azione del tempo, e soprattutto nel contrasto tra la dimensione congelata dello spazio domestico e l’assetto polimorfo della città, fata morgana modulata sulle intermittenze della luce artificiale.

Nelson Yu Lik-Wai, dopo aver esordito due anni prima come direttore della fotografia nel primo film di Jia Zhangke, nel 1999 si mette al lavoro sul proprio lungometraggio di finzione, in parallelo al lavoro sull’immagine per “Ordinary People”, il film di Ann Hui uscito qualche mese prima rispetto a “Love will tear us apart” e che può essere considerato come un controcanto Storico e politico. La sospensione abitata dai personaggi raccontati da Yu Lik-Wai, racchiude nell’istante tutto il percorso di quelli che nel film di Hui attraversano gli anni ottanta, fino ai fatti di piazza Tienanmen.

A due anni dalla reintegrazione nella Repubblica Popolare Cinese, Hong Kong appare come un ventre elettrico e notturno che accoglie i fantasmi della tradizione in un corpo trasformato da successive stratificazioni. L’occhio atterrito e pieno di interrogativi della città verso il continente, viene sostituito da quello degli immigrati che tentano nuove possibilità. Si genera una frattura tra esperienza e prospettive, che inquadra quattro figure lacerate e fatte a pezzi dall’avvitamento spaziotemporale.

Hong Kong non più separata, incorpora ancora tutte le cicatrici del mercato che ne ha determinato il modello, mentre frammenti di una Cina lontana sopravvivono nell’eco dei motivi popolari diffusi in modulazione di frequenza, come tracce spettrali che non scandiscono il tempo, ma lo proiettano nell’inerzia di un altro ricordo morente.

La città è nei vicoli e nelle strade notturne, negli appartamenti fatiscenti, nei palazzi di vetro che si stagliano sulla decadenza della vita quotidiana, ormai regolata da squallide strategie di sopravvivenza.

Il simulacro della velocità che caratterizza buona parte del cinema di HK del decennio appena trascorso, viene assorbito e depotenziato, in anticipo rispetto al lavoro che Yu Lik-Wai porterà ad estreme conseguenze con “Plastic City“, suo terzo lungometraggio, sviluppato in pieno passaggio da analogico a digitale. In quel caso l’innesto sarà legato ai nuovi agglomerati urbani osservati nella loro morfologia incongrua come “atrocità metafisiche”, attraverso la ricombinazione dello sguardo creato dall’alta definizione. Tracce di un mondo che scompare, mentre emergono altre forme, un concetto che sarà alla base dei progetti condivisi in quegli anni dalla Xstream, la produzione avviata con Jia Zhang-ke e Chow Keung.

Prima di questo, “Love will tear us apart” e il successivo “All tomorrow’s parties” rappresentano un dittico della fine, testimonianza di uno stato di passaggio inquietante che viene raccontato con incedere sonnambolico.

Ying entra in campo poco prima di partire per Hong Kong, illuminata da una torcia elettrica, dopo essersi scontrata accidentalmente con la scala dove un operaio sta riparando i circuiti di un’insegna al neon difettosa. Il personaggio interpretato da una giovanissima Ning Wang sta per abbandonare Shenzhen. Si lascia alle spalle la storia con un militare giustiziato per furto.

Yu Lik-Wai sconnette la vita precedente di Ying con quella intrapresa ad Hong Kong, presentandoci in parallelo due incarnazioni diverse della stessa difficoltà di vivere. In entrambe le declinazioni, Ying è una donna che non può vivere due volte, nonostante il tentativo di reinventarsi. Da una parte il continente che schiaccia ogni sogno, dall’altra il mercato globale che a Hong Kong la costringe a mantenersi come prostituta. L’impossibilità di ogni relazione positiva tra spazio e individuo è descritta dal regista cinese con una serie di immagini del vuoto che non si limitano ai luoghi derealizzati della città. Le storie che questa conserva e che ascoltiamo da voci marginali o da quella narrante di Ying collocata solo nella dimensione irraggiungibile del passato, sono popolate da morti, spiriti annichiliti nel tempo, case risucchiate in un buco da un’improvvisa esplosione, mitologie della tradizione che scompaiono, come quella incarnata da Teresa Deng, il foro di un proiettile in fronte, dopo l’esecuzione del giovane militare.

Per Ying orientarsi tra le lusinghe della città è l’unico modo per cancellare un passato doloroso, fino a quando non incontra Jian, un piccolo delinquente che spaccia pornografia illegale coprendosi con un videonoleggio e taglieggiando i clienti più riluttanti. La compagna Yan, anch’essa immigrata, passata dalla gestione di una scuola di danza all’impiego come operaia responsabile di un ascensore, vive annichilita tra lo spazio domestico e quello lavorativo, in una dimensione dove l’invalidità che le impedisce di fare altro è il segno di una sopravvivenza minima rispetto ad una città invisibile che si estende ostile tutt’intorno. L’ascensore, che regola i passaggi da uno spazio all’altro, è sotto la manutenzione di Chun, riparatore professionista, la cui vita è circoscritta tra circuiti, meccanica e una vita domestica minima illuminata dalle luci notturne e dalle immagini riflesse dal catodo.

Intorno a queste figure, Yu-Lik-Wai non costruisce un intreccio causale, ma cerca il reagente altrove, nell’azzeramento di ogni istanza drammaturgica che non sia connaturata all’incorporazione delle diverse individualità nella morsa urbana.

L’azione del tempo è allora filmata come una corrosione inesorabile dello spazio relazionale, sempre più angusto, deprivato di ogni magia e destinato a dissolvere l’energia dei corpi.
L’interiorità dei personaggi emerge dal loro rapporto con gli oggetti e i gesti quotidiani, forma di uno scarto tra desiderio e coazione a ripetere.

Ying, l’unica che torna indietro perché davanti a se scorge solo l’altrui desolazione e la sedimentazione di un passato contro il quale non può agire interiormente ed esteriormente, è immersa invano nella dimensione sensoriale del corpo e della musica.

Yu Lik-Wai ne filma due polarità.

La prima mentre si trasforma in ombra proiettata sulla carta da parati dal carosello luminoso delle luci, per improvvisare una danza sulle note di un vecchio motivo popolare. Lo spazio è quello di un’antica sala da ballo, dove la compagna di Jian lavorava come insegnante, prima di diventare invalida. Si verifica un’aberrazione temporale che salda il passato della città con la storia individuale tra Jian e Yan. In quello spazio virtuale dove la danza lieve ed erotica di Ying passa dal corpo al fantasma, sembra emergere il relitto di un melodramma che non può aver luogo, derealizzato fino a dissolversi in un riflesso, rispetto alle funzioni drammaturgiche che potrebbero farlo crescere.

La produzione di Stanley Kwan in questo senso si fa sentire come influenza leggera, legata per lo più al senso di una crisi identitaria capace di creare forte contrasto tra i segni dell’Opera cinese e le diverse relazioni di appartenenza con Hong Kong e il continente. Yu Lik-Wai è molto più minimalista, e spoglia quei segni per immergerli nell’equitemporalità mostruosa della città contemporanea, il cui fascino è confinato nel continuo sovrapporsi tra miraggio e crepuscolo.

L’altra, non meno illusoria, mentre già altrove Ying balla per se stessa dentro l’energia punk di uno spazio prossimo al blackout per il razionamento dell’energia, sequenza che chiude il film nell’alternanza tra l’illusione delle sorgenti luminose elettriche e il buio.

Ecco che “Love will tear us apart” sembra descrivere il confine tra interiorità e civiltà, progresso economico e perdita identitaria, in una successione di energie interrotte, potenzialità tradite, esplosioni catartiche che non possono realizzarsi.

Bloccati nei loro incidenti e nel destino inesorabile che questi sembrano aver determinato, i personaggi fanno i conti con una separazione dalle proprie origini che non è più rintracciabile, né dalla prospettiva continentale né all’interno dell’ex colonia britannica, se non attraverso la rimessa in scena dei ricordi, tra la falsificazione del passato e l’inganno del futuro.

Love will tear us apart di Nelson Yu Lik-wai (Tiānshàng rénjiān, Hong Kong 1999 – 109 min)
Interpreti: Tony Leung Ka-fai, Wong Ning, Lü Liping, Rolf Chow, Simon Chung, Gorretti Mak
Regia: Yu Lik-wai
Sceneggiatura: Yu Lik-wai
Prodotto da: Stanley Kwan e Tony Leung Ka-fai
Fotografia: Lai Yiu-fai
Montaggio: Chow Keung

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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