L’edizione 2020 del Lucca Film Festival diretto da Nicola Borrelli rappresenta un esperimento. Dopo Venezia 77 è uno dei primi festival ad esser presentato in forma diffusa. Una parte destinata allo streaming che si allarga ad una platea potenzialmente più vasta e una corposa programmazione in loco, ospitata dalle principali sale cinematografiche lucchesi, allo scopo di mantenere il contatto vivo con il territorio che ha caratterizzato la storia di un evento giunto al quindicesimo anno di vita, con una serie di ramificazioni che lo hanno trasformato in un organismo completo e complesso.
Come abbiamo scritto più volte è necessario sostenere realtà come questa, proprio per conservare la relazione stretta coltivata e mantenuta con il tessuto urbano. Per farlo è necessario garantire presenza in sala, verificando che non si rischia niente e che le restrizioni obbligatorie legate all’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, consentono comunque un’esperienza soddisfacente, lasciando per una volta la paura a casa.
Siamo stati a vedere i primi due blocchi del concorso cortometraggi, curato da Rachele Pollastrini per il festival ormai da diversi anni e ci siamo trovati in mezzo a studenti, appassionati e spettatori interessati.
Per ogni proiezione è attiva una doppia giuria, popolare e studentesca, che ha animato i due pomeriggi lucchesi.
La selezione di Pollastrini si è rivelata, almeno fino a questo punto, come un interessante lavoro combinatorio, capace di parlare del presente o delle linee confluenti che lo hanno determinato, senza scendere a patti con quella dimensione mimetica che sta occupando tutte le forme (lunghe, brevi e via dicendo) prodotte sotto Covid-19. “I corti iscritti erano centinaia, giunti da tutto il mondo, tutti di alto livello – ci ha rivelato Rachele – ma nella selezione ho cercato di non scendere a patti con quelle forme istantanee che hanno il limite di rappresentare l’isolamento con modalità emotive ed estetiche molto simili e troppo prossime alla realtà che stiamo vivendo“.
Il corpo e lo spazio circostante, la definizione identitaria e la città che la ingloba per disintegrarla oppure reinventarla, i codici di una natura ancestrale ormai patrimonio lessicale e rituale di pochi, sono alcune delle vibrazioni che hanno attraversato la prima giornata della rassegna cortometraggi del Lucca Film Festival, proiettata al Cinema Astra il 29 settembre 2020.
“Wild Berries” di Marianna Vas, Hedda Bednarszky è una co-produzione tra Romania Portogallo, Ungheria. Esplora sensorialmente la Romania rurale attraverso la relazione di un bambino con i rumori della natura, il comportamento animale e la scansione temporale di una stagione che toglie e dona frutti. Ispirato in parte all’ottava elegia duinese di Rilke, è una contemplazione dell’aperto, quel das Offene che l’umano non riesce a vedere né a compendere, se non con una concettualizzazione dello sguardo dall’interno. Il lavoro di Vas /Bednarszky sembra sollevare il bambino rilkiano dalla costrizione a priori imposta dalla formazione dei concetti, per aprire nuovamente il limite, mentre l’orizzonte logico-descrittivo viene finalmente spezzato da un’invasione aurale. “Wild Berries” lo si può guardare chiudendo improvvisamente gli occhi, per la qualità del lavoro sul suono che precede o segue l’identificazione dei fenomoni e per raggiungere quello sguardo infantile, che ci mostra la vastità di un tempo senza tempo.
L’interno, al contrario, domina gli spazi claustrofobici di “Snow Shelter” dell’animatore lituano Robertas Nevecka. La società post-bellica che descrive è immaginaria e allo stesso tempo radicata nella difficile infanzia di Nevecka e della sua nazione. Nonostante questo, come ha avuto modo di raccontare in alcune interviste, la desolazione di una città desertificata, senza più regole di convivenza sociale e osservata attraverso un inverno senza fine, potrebbe occupare un tempo alternativo come il prossimo futuro, oppure gli anni direttamente successivi ad un conflitto distruttivo. Gli elementi della città sono quelli di Vilnius, ma è l’unico aggancio disponibile con la realtà.
Nevecka si è servito del rotoscope, una tecnica spesso discussa per la relazione troppo stretta tra realtà filmata ed elaborazione animata. Ma è proprio sulla fluidità iperreale dei movimenti e sulla vicinanza a corpi e volti che Nevecka compie un lavoro ulteriore di distorsione prospettica, cambiando il rapporto volumetrico degli edifici, le caratteristiche dei volti, ma anche la persistenza di alcuni fenomeni, come le fiamme che incendiano un caminetto. Un trattamento che caratterizza anche la qualità aptica della musica composta da Domas Strupinskas per un quartetto d’archi. Registrata dal vivo in un locale punk di Vilnius, ha le qualità materiche della musica acustica, ma delinea la scansione di un tempo inesorabile e astratto. Che Nevecka abbia cercato di lavorare in direzione espressionista è già chiaro da questi elementi e dai toni scuri, contrastati, al limite con l’ipovisibilità, in cui sono calati i suoi personaggi. Vittime e carnefici occupano lo stesso suolo, lottano per occupare appartamenti dismessi, negoziano con la Chiesa per conquistarsi uno spazio protetto dalla tormenta di neve che cancella l’orizzonte visivo. Non c’è speranza nell’interno rappresentato da “Snow Shelter”, solo i confini della convivenza civile che si disgregano, per fare posto ad una sopraffazione senza alcuna via d’uscita. Può il senso di identità farsi strada in una gabbia senza uscita?
Maria Luisa Forenza, autrice anche del bel documentario intitolato “Mother Fortress”, è presente a Lucca con “Let there be light“, corto che condivide con il suo lavoro più completo la ricerca della fede in un territorio dilaniato dalla guerra. Girato in Siria tra il 2014 e il 2017, descrive la storia di un monastero più volte attaccato come storia di resistenza. La speranza, la luce e soprattutto, il senso della missione come forma di non intervento. Piccolo canto sulla conservazione di quelle differenze che i conflitti cercano di creare. L’approccio è quello conversazionale della testimonianza. Interno ed esterno cercano una conciliazione nei gesti e nello sguardo di chi ancora, nonostante tutto, è in cerca della luce.
Rick Niebe, videomaker e artista attivo tra Pisa e Livorno che lavora nell’ambito del found footage, nel suo lavoro di ricerca converge e “dirotta” materiale audiovisivo eterogeneo. Tra grattage, lacerti di pellicola dipinta, street art, sembra dialogare in senso elettivo con le pitture in movimento di Oskar Fischinger e la loro relazione con la musica. In “Prelude“, il corto presentato a Lucca, si serve di un brano di Galina Ustvolskaya, il cui repertorio pianistico riduce ulteriormente la tendenza già essenziale nell’impiego di organici orchestrali, con una capacità unica di svincolare la battuta dalle indicazioni ordinarie e strette di tempo. Le immagini di Niebe si liberano in questo rimario completamente possibile. L’interno, qui come dimensione interiore concettualizzata, si riversa nell’aperto.
La relazione tra movimento e immagine “stampata” fa parte della ricerca incessante e coerente del geniale Shon Kim, artista sudcoreano che ha creato una serie di “libri animati” sotto la categoria “Bookanima”, impiegando i principi della cronofotografia di Muybridge / Marey in una nuova e stimolante forma che elabora il movimento all’interno e all’esterno della cornice che delimita gli oggetti impiegati. I libri utilizzati da Kim, sondano una nuova relazione tra dentro e fuori, immagini e linee che ne delimitano lo spazio. Il gioco dell’artista con l’immagine stampata trova una giustificazione metalinguistica con l’episodio dedicato a “Andy Wharol“, inserito nella rassegna lucchese. Ritaglio casuale, zoom ex abrupto, frammenti di dialoghi e interviste utilizzate con la stessa tecnica di smontaggio e ri-montaggio in sequenza, possono sembrare in questo specifico contesto un omaggio al binomio serie+riproducibilità che attraversa ostinatamente tutta la produzione Wharoliana. In realtà, il bombardamento visivo a cui Shon Kim ci sottopone delinea uno spazio inedito, la creazione di uno sguardo ulteriore rispetto al dentro e al fuori di un’immagine, smossa e agitata come corpo ormai ec-centrico ed eccedente rispetto alla sua origine.
Flessibilità che diventa esplicito plasmarsi delle forme in “Flexible Bodies“, corto dell’artista tedesco Louis Fried, dove i corpi intrappolati cercano di definire i propri desideri rispetto ad un grande grattacielo che domina l’architettura funzionale della città. In questa dimensione quasi Ballardiana, Fried ha più volte dichiarato l’estetica fantascientifica alla base del suo corto. L’organizzazione architettonica degli elementi diventa espressione di un nuovo sistema ritualistico di segni, che oltre alla dimensione del successo e del potere, incorpora le tracce del mondo naturale, come rielaborazione artificiale e concettualizzata. In termini visuali, colpiscono le suggestioni molto vicine al bellissimo Gagarine di Liatard / Touilh, anche se Fried sembra maggiormente interessato ad indagare un mondo completamente interiorizzato dalla persistenza dell’architettura nell’esperienza quotidiana tra lavoro e spazio privato, corpi intrappolati e disinnesco dell’affettività. Quando la manager si trova sul tetto dell’edificio, Fried insiste sui volumi di cemento come se fossero gli elementi costitutivi di una diga. Il suono in primo piano, allinea il fragore del vento a quello di una cascata.
L’interno cerca di ricreare la tensione perduta verso l’aperto.