domenica, Novembre 17, 2024

L’ultima Ora di Sébastien Marnier: Terra, pianeta alieno

My bowels are empty, excreting your soul
What more can I give you ?

(Patti Smith, Pissing in a River)

L’estenuante sospensione che attraversa i romanzi apocalittici di J. G. Ballard è una qualità della narrazione a cui  Sébastien Marnier fa costante riferimento ne “L’ultima ora“.  Imminenza e immanenza, dove l’esplosione della catastrofe viene ritardata, mentre l’ordine delle relazioni sociali trattiene qualcosa di indecifrabile in quei gesti, anche minimi, che emergono dalla routine quotidiana. 

Dell’ineluttabilità del romanzo di Christophe Dufossè, da cui Marnier ha liberamente adattato il suo film , rimane tutto ciò che l’ambiente scolastico è in grado di suggerire. Aule e spazi funzionali dove le regole annullano l’interazione sociale, riducendo la dimensione contemplativa ad una descrizione algida dello spazio architettonico, con la dimensione residenziale a sostituire completamente il senso di radicamento ad una comunità. 

Marnier aderisce al romanzo di Dufossè solo per creare il clima di minaccia che lega i giovani studenti ad un patto misterioso, ma allo stesso tempo ne disinnesca la riflessione sulla malvagità, indirizzando diversamente la qualità dell’oggetto percepito.  Per quanto alcuni segni desunti dalle strategie del cinema di genere sembrino dischiudere un orizzonte metafisico, questo viene annullato dal disvelamento di una condizione immanente che coinvolge l’intera collettività.

[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#fa9b02″ class=”” size=””]”L’ultima ora” è un film sfuggente e allo stesso tempo concretamente politico, a partire dal significato polisemico del titolo, il cui riferimento è di volta in volta escapista, mortifero, apocalittico e con un improvviso rovesciamento, animato da un sentimento di paura, l’unico che possa connettersi al senso più atavico di speranza. [/perfectpullquote]

Il carico di violenza autoinflitta che la classe di sei adolescenti affidati a Pierre è capace di esprimere, ha una valenza prima di tutto performativa, perché nella continua riproposizione di segni e prodotti, gli oggetti della comunicazione e del consumo di massa diventano occasione per ferirsi e ferire in un contesto deprivato da qualsiasi pulsione emozionale.
 
Il nichilismo di alcune prove di resistenza appare di volta in volta come estrema astrazione di quelle pratiche di violenza vissute ogni giorno nello spazio scolastico, ma anche riflesso di un codice linguistico assimilato dall’agenda culturale corrente. I tentativi di soffocamento con un sacchetto di plastica, il gioco in apnea con il corpo avvolto nel cellophane, la preparazione martirologica alle percosse costantemente filmate dagli smartphone, diventano improvvisamente un attraente sostituto di energie politiche bloccate, quasi ad indicare il potere surrogale dell’iconoclastia in una società votata alla quiescenza.

[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#fa9b02″ class=”” size=””]Eppure questo spingersi oltre il limite per forzare le cornici imposte dal sistema formativo, assume progressivamente il tono sinistro di un “no future”, restituendo senza alcuna mediazione la forza del potenziale autodistruttivo che precede qualsiasi escatologia sulla presenza connaturata del male[/perfectpullquote]

Educati a viverlo, i sei adolescenti lo rappresentano per trasmissione, fino all’emersione di un sentimento di ineluttabilità nichilista tradotto nei piccoli frammenti di “cinema di poesia” registrati su sopporto DVD.

Tra found footage e documentazione diretta, si succedono le immagini di quelle atrocità quotidiane che colpiscono a morte l’intero ecosistema; elegia oscura e declinata negativamente, nuovo “sangue delle bestie” tra realtà esperita e verità condivisa a distanza.

Perchè non può non venire in mente quanto di questo disastro i sei adolescenti abbiano individuato tracce concrete nella Francia industriale contemporanea e quanto l’immagine telepresente della rete abbia contribuito a forgiarne l’immaginario. 

Eppure, il primo spiraglio di una flagranza che disinneschi la rappresentazione al potere, non importa di quale “colore” filosofico, risiede in quell’interstizio tra realtà vissuta e realtà percepita attraverso i media digitali,  rimontata nei brevi filmati realizzati dai ragazzi.

Il DVD viene ironicamente qualificato da Apolline, una delle ragazze del sestetto,  come un supporto vintage, ovvero un oggetto del passato che appartiene alla generazione di Pierre, la cui presenza sembra indicare fascino per un mondo mai vissuto e allo stesso tempo l’inutilità di una tecnologia che ha lasciato dietro di se relitti, macerie, dispositivi e periferiche destinate alla dimensione mortifera della nostalgia. 

La stessa trasmissione interrotta è rintracciabile nella relazione che si instaura tra il sestetto e la possibilità di un nuovo, possibile significato offerto dalle canzoni di Patti Smith inserite nel piano formativo dell’insegnante di musica interpretata da Emanuelle Bercot. Mentre “Pissing in a River” rimane chiusa nella dimensione privata della prova rovesciando la forza individualista dell’originale in un inquietante canto di dissoluzione, “Free Money” diventa un apparente momento di partecipazione collettiva. Eppure la nostalgia dei professori, mentre ricordano la forza di un inno rivoluzionario, non trova alcuna corrispondenza nell’esecuzione freddissima dei ragazzi; le liriche della Smith testimoniano disillusione, scollamento, mancanza di aria ed empatia.

Lo spazio per l’azione e la lotta sembra irrimediabilmente sottratto dalle generazioni che gestiscono il sistema educativo, i cui simulacri non sono più sufficienti per interpretare la mutazione dei numerosi piani di realtà, tra sofferenza e virtuale, tanto che il voto e la dimensione legittimante dell’eccellenza, diventano il primo vero segnale di un’educazione alla crudeltà.

La follia è allora l’unica possibilità di auto rappresentazione, quando lo spazio politico e quello creativo vengono soffocati.

Marnier punta costantemente alla sovrapposizione di segni, sfruttando un linguaggio che attinge in egual misura alla sospensione di certo cinema di fantascienza (i dannati di Rilla, quelli più tragici di Losey, ma anche le intuizioni narratologiche di Shyamalan) e al dramma sociale, allargando quindi le possibilità del contenitore entro cui si sviluppava il precedente “Irréprochable”, con una riflessione che come dicevamo, appartiene più a Ballard che all’origine letteraria del film. 
Contenitori appunto, che gli servono per sviluppare un cinema attento alla dimensione architettonica, al ruolo dello spazio come luogo di indagine antropologica, alla composizione dell’inquadratura come cellula di decostruzione del senso.

Ecco che l’osservazione di un orizzonte in frantumi, come occasione per trovare connessione sociale attraverso la condivisione della paura, sembra l’immagine onirica che contrappone il disastro tecnologico ad un eden quotidiano, un’aporia del futuro anteriore. Ma è un sogno oscuro che appartiene solo al passato letterario che si immaginava il futuro, oppure racconta la persistenza di un immaginario digitale che ha ineluttabilmente mutato il nostro modo di vedere? 

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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