Il set e il deserto. L’orizzonte a perdita d’occhio e le pale eoliche. Attraverso una fenditura tra questi due stati della visione si manifesta il cinema di Terry Gilliam, irrimediabilmente sospeso tra il caos del congegno colossale e il suo stesso disinnesco interno ed esterno. Non c’è film del cineasta britannico che non accolga il genoma del fallimento e dell’incompiutézza, una tensione che nei lavori migliori identifica nel corpo l’ultimo stadio della trasformazione dall’occhio al set. The Zero Theorem rendeva esplicito il rapporto conflittuale di Gilliam con le sue macchine celibi, relazione senza via d’uscita, ormai arenata in una zona di non ritorno e destinata a vivere all’infinito di riflessi e realtà simulacrali. Questa collisione tra immagine virtuale e la brulicante vita del set, costi quel che costi, anima il cinema impossibile di Toby, nemico della tecnologia CGI e con una consapevolezza di se inversamente proporzionale ai limiti imposti dal budget.
Cinismo vecchia guardia che non riesce a trovare conciliazione con quello animato dalle nuove regole del mercato.
Il regista de “L’uomo che uccise don Chisciotte” interpretato da Adam Driver è sospeso tra i due mondi, non riesce ad attraversarli oppure a percorrerli alla rovescia come accade in tutto il cinema di Gilliam, a partire dall’elemento retorico più praticato lungo il corso della sua carriera, quello del viaggio nel tempo.
Gli attraversamenti sono numerosi, ma rivelano sempre la natura teatrale della rappesentazione o la qualità evanescente del miraggio. Persino l’obolo di Caronte non serve ad oltrepassare la porta dell’eterno spavento, inefficace rispetto ad un intero paese, amorevolmente accordato con le derive del vecchio calzolaio che si crede Don Quixote. Trovato all’interno di una baracca gestita da una vecchia avida, il cavaliere errante declama le sue gesta davanti ad uno schermo costituito da un vecchio lenzuolo. Le immagini sono quelle de “L’uomo che uccise Don Quixote”, film giovanile di Toby girato in bianconero proprio in quei luoghi e rovina senza fine per l’anima di coloro che vi presero parte, inclusa quella del prode cacciatore di illusioni interpretato da Jonathan Pryce.
Le pieghe del tempo diventano allora compresenti, a partire dallo squarcio Wellesiano dello schermo, primo attraversamento che innesca la sovrapposizione tra la meraviglia di un gioco “da ragazzi” che non sembra poter più tornare e la corruzione del sogno ridotto al livello di merce acquistabile.
L’esperienza libera e individuale dello spirito si infrange contro l’ordine stabilito dal potere, è un adagio a cui Gilliam ci ha abituati declinando in molti modi un lungo viaggio nella dimensione creativa durante il suo farsi.
Eppure in questa potenzialità che si infrange c’è anche lo sfaldarsi inesorabile del suo stesso cinema, cupio dissolvi che spazza via tutti gli orpelli subito dopo averli costruiti.
Esplicita e allo stesso tempo paradossale è la coincidenza dell’immaginario legato alla fascinazione per gli ingranaggi, l’illusionismo prostetico e le maschere di grandi dimensioni, con l’impero costruito da Alexei Miiskin (Jordi Mollà), il magnate russo della vodka che ha comprato l’anima di Angelica (Joana Ribeiro); certamente solo una parte della disseminazione che Gilliam compie tra le consuete citazioni felliniane, metabiografia e autofiction, ma con il potere distruttivo dell’identificazione negativa, la stessa che non consente a Toby di distinguere più i diversi piani di realtà e che lo spinge alla soppressione del potere illusorio delle immagini, scambiate sempre per qualcos’altro.
Non termina così la storia di chi visse matto e morì savio, almeno nella trasformazione che Gilliam mette in scena, ricollocando nel deserto la rinascita dei suoi personaggi, questa volta artefici delle proprie illusioni e in fuga dalle rovine di ogni set, verso un nuovo orizzonte d’amore. Paradossale dicevamo; il deserto e due figure a cavallo che cancellano il delirio di onnipotenza di un cinema costituito da grandi architetture destinate al crollo. Non importa allora che “L’uomo che uccise don Chisciotte”, non il ricordo digitalizzato di Toby, ma il film di Gilliam, sia stanco, continuamente inceppato, attraversato a tratti da un’insopportabile retorica binaria tra “illusione” e “realtà”, perché la sua rovinosa caduta ha la forza di una disturbante malattia. Dopo il fallimento si rinasce oppure si brucia la propria biografia.