Raphael, uomo con un solo occhio, custodisce una villa ormai disabitata. Mentre condivide la dépendance con la madre protettiva e dispotica, passa le giornate a concepire trappole per talpe, dissodare il terreno, mantenere il giardino della proprietà, suonare la cornamusa ed infine amoreggiare con la postina del luogo, artefice a sua volta di una serie di giochini sadomaso, dove con ferma autorità decide di interpretare il ruolo della sottomessa, assegnando all’uomo un dominio che evidentemente non gli interessa.
Tutto scorre con la ciclicità tediosa di un rituale uguale a se stesso, fino a quando Garance, l’erede della proprietà, non torna ad occupare un paio di stanze, di cui una adibita a laboratorio creativo, dove poter concepire la nuova scultura della sua ampia produzione d’artista.
L’incontro tra Anaïs Tellenne e Raphaël Thiéry avviene sul set dei primi corti diretti dalla regista parigina, una relazione professionale corroborata da stima e fiducia reciproca che ha consentito lo sviluppo di un’opera prima pensata e scritta a partire dalla fisicità dell’attore francese.
Riferendosi almeno in parte a quel transfert tra vita e arte che informa le opere di artiste come Sophie Calle e Marina Abramović, Tellenne sfrutta l’erotismo naturale di Emmanuelle Devos per costruire un piccolo, ma efficace saggio sullo sguardo, invertendo la polarità e la direzione di alcuni segni culturali specifici.
Nello spazio gerarchico del dominio padronale, Raphael spia la mani di Garance mentre plasmano la materia, così da ridefinire il proprio perimetro attraverso l’espressione di un mal de vivre che può superare il rigoroso mutismo, attraverso i lamenti di una cornamusa strappati dagli stereotipi della tradizione. Sulla qualità di quelle performance solitarie, spesso eseguite all’interno di una piscina svuotata, Garance può stabilire un contatto con l’uomo, capace di spezzare, almeno apparentemente, la distanza di classe che regola i gesti quotidiani tra servo e padrona.
Ma in questa atmosfera sospesa tra il sogno e la realtà, dove Tellenne sembra recuperare a parti invertite le suggestioni de La belle et la bête di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont, transitano quei segni che in Balzac, Wilde, James, codificano l’opera d’arte come entità che vampirizza le vite di artisti e modelli, per rafforzare il proprio statuto.
Mentre Garance mette improvvisamente al centro della scena Raphael per dar corpo ad un’intuizione intellettuale, lo sguardo desiderante dell’uomo isola i gesti dell’artista sull’impasto argilloso, per ricostruire il mito Ovidiano di Pigmalione. Si innesca allora un processo di annientamento opposto e contrario alla rilettura romantica del mito e per certi versi più vicino alle attitudes settecentesche di Emma Hart, dove la vita e il corpo si irrigidivano nella messa in scena delle pose in successione.
Rispetto alla tragicità orrorifica che Nacho Cerdà si immagina nel suo Genesis, in L’Homme d’argile è la volontà di oggettificazione del soggetto a permettere una regressione alla forma ancora plasmabile della materia.
Farsi opera d’arte e diventare quel cumulo informe ravvivato dalle mani di Garance, è l’unica possibilità che Raphael può attivare per stabilire un pieno contatto erotico con la donna.
Una comunione temporanea, che non converge in modo risolutivo, ma al contrario stabilisce una distanza abissale tra i processi di produzione artistica e il desiderio di Raphael di esser guardato.
Garance fagocita la vita nell’opera, annienta la sua specificità congelando la materia pulsante in un oggetto inerte privato della propria identità.
Da una parte emerge la prospettiva tragica e nichilista che separa irrimediabilmente la serializzazione dell’arte contemporanea dagli odori e dai sapori della vita di provincia, dove Raphael è destinato a rimanere incorporato.
Ma la Borgogna dei piccoli bistrot e il corpo eccedente di Raphael sono per Garance anche manifestazioni di una verità sconosciuta e ricercata in termini squisitamente culturali, tanto da doversi sbarazzare di qualsiasi naïveté rappresentativa che addobba la villa, poco dopo il suo arrivo.
Vengono in mente le parole di Frenhofer ne “Il Capolavoro sconosciuto” di Balzac: «Voi fate per le vostre donne belle vesti di carne, bei drappeggi di capelli, ma dov’è il sangue che genera la calma o la passione, e che causa effetti particolari? […] Avete l’apparenza della vita, ma non esprimete la sua pienezza traboccante, quel non so che il quale è forse l’anima, e che fluttua nebulosamente sull’involucro».
La cruda materia che Raphael lavora per questioni funzionali, è la stessa terra che Garance manipola nella prassi d’artista, eppure affinché i due mondi riescano a comunicare, è necessaria una metamorfosi contraria alla tensione dell’opera verso la vita. Il riassorbimento nella fruibilità dell’oggetto, conserva nel manufatto una tensione indicibile e trattiene tutto il “sangue sulla tela“. Una ricerca della verità che non può quindi eliminare la crudeltà e la sofferenza insita nel processo di produzione.
E se l’emancipazione di Raphael dai modelli coercitivi dell’espressione per come si codifica nei confini ristretti della provincia, è il risultato di una maieutica d’amore praticata da Garance, questa non può contemplare l’annullamento delle differenze se non attraverso un sacrificio della propria identità biologica, qualsiasi essa sia.
Ecco che L’homme d’argile, nel lessico sottile che sconfina dalla fiaba al racconto di un’educazione sentimentale, sollecita interrogativi sociali e percettivi intorno al mistero sotteso dai processi creativi.
Farsi opera è per Raphael dare corpo a quanto ci manca, attraverso un gesto disperato che attesta l’impossibilità del desiderio di trascendere i confini del mondo materiale.
L’irripetibilità dell’amplesso tra Garance e Raphael, sottratto improvvisamente alla vista dello spettatore e di cui rimane solo il corpo abbandonato del secondo, metà carne e metà argilla, è destinato ad esser tradotto nell’inerzia di un’installazione museale.
«Cadavere evacuato dall’evento», per usare una frase di Carmelo Bene, l’opera non è di Garance né di Raphael, ma il risultato di un sentimento vacante.
L’uomo di argilla di Anaïs Tellenne (Francia 2023 – 94 min)
Interpreti: Raphaël Thierry, Emmanuelle Devos, Marie-Christine Orry, Mireille Pitot, Alexis Louis Lucas, Cesare Capitani, Zoran Boukherma, Ludovic Boukherma, Natasha Cashman
Sceneggiatura: Anaïs Tellenne
Musica: Amaury Chabauty