martedì, Novembre 5, 2024

Luz di Tilman Singer – Milano Film Festival 2018: la recensione in anteprima

Luz (Luana Velis) è una ragazza cilena che ha in licenza un taxi. Dopo una nottata evidentemente difficile arriva con il corpo ferito e coperto di sangue nella stazione di polizia di un’imprecisata città tedesca. Il luogo sembra completamente abbandonato e la donna rimane immobile davanti al receptionist, inquadrata in campo lungo, mentre ripete ossessivamente una frase: “come puoi continuare a vivere in questo modo?“. La granulosità della fotografia curata da Paul Faltz e l’elettronica carpenteriana di Simon Waskow impostano da subito un’atmosfera che caratterizzerà l’involucro esterno del primo lungometraggio diretto da Tilman Singer, presentato in anteprima mondiale alla scorsa Berlinale nella sezione Perspektive Deutsches Kino.
Al di là dei presupposti, la superficie non spinge il film nella zona di sicurezza della nostalgia cinefila, servendosi al contrario di tutti gli elementi riconducibili ad una tradizione o all’aura di un’immagine, per sospendere il tempo entro i confini dell’astrazione psichica.
Girato interamente in 16mm, “Luz” non ricorre alle scorciatoioe del digitale per sostituire la patina del tempo con la sua profondità semantica e filosofica. Gli esterni sono completamente tagliati fuori e la centrale di polizia, perde progressivamente le proprie funzioni per diventare uno spazio morfologicamente espanso, legato alla memoria e all’immaginario.
Tilman innesta nel contesto un racconto legato all’occulto, dove la presenza demoniaca sembra attingere da più tradizioni che trovano elemento comune nella filosofia del contagio.
I personaggi che gravitano intorno a Luz sono il dottor Rossini (Jan Bluthardt), uno psicologo che vediamo per la prima volta all’interno di un bar; Nora (Julia Riedler), la donna che lo abborda mentre Rossini beve un drink al banco; Bertillon (Nadja Stübiger), la detective che interrogherà Luz con l’assistenza del Dr. Rossini ed infine Olarte (Johannes Benecke), l’interprete preposto alla traduzione simultanea, dallo spangolo cileno al tedesco.

Singer piazza una mina nel cuore del racconto disattendendo ogni possibilità di ricostruzione cronologica, a dispetto della centralità che dedica alla prassi della terapia regressiva, quella che Rossini mette in atto per comprendere cosa è successo nelle ultime 24 ore dentro al Taxi di Luz. 
La qualità demoniaca di Rossini è sottolineata con un procedimento che attraversa il tempo e che sembra inizialmente trovare un’origine nel passaggio di facoltà e poteri tra Nora e lo psicologo, mentre sorseggiano strani drink colorati all’interno del piccolo bar dove si incontrano per la prima volta. Singer utilizza pochissimi elementi, supportato dal rigoroso setting fotografico di Faltz e dal minimalismo essenziale orientato dai tempi legati all’impiego della pellicola. L’unico riferimento tangibile è in fondo proprio quello legato all’aura di un cinema low budget ormai letteralmente fuori dal tempo e che impedisce al regista tedesco di ricorrere alle insopportabili scorciatoie del digitale, quando imita dal basso le produzioni su grande scala grazie alle agevolazioni messe a disposizione da una tecnologia che riduce, in modo spesso distruttivo, qualsiasi assunzione di “responsabilità”. Luci, ombre e grana dell’immagine determinano la vita e la morte dei fantasmi che popolano il film, intrappolati nel cerchio magico di un’immagine nuovamente ai limiti dell’evanescenza, anche per chi la produce, non solo per chi la guarda. Il passaggio di stato tra Nora e il Dr. Rossini viene rappresentato con un bacio torrido, con le labbra spalancate e un globo luminoso che passa di bocca in bocca.
Ci è venuto in mente un film dimenticato come Liquid Sky di Slava Tsukerman, dove la commistione tra sostanze psicotrope, inconscio e dinamica del contagio, veniva trattata con una sintesi visuale molto simile a quella concepita da Singer 36 anni dopo.

L’origine del demone perde ogni semplificazione durante la lunga sessione di ipnosi regressiva, tanto da affondare radici nel passato remoto di Luz, nella sua frequentazione della scuola cattolica per sole ragazze e nella dimensione rituale sperimentata durante gli anni formativi. Sfruttando una dimensione quasi Zulawskiana, nella rappresentazione reversibile delle oigini del male, Singer non esplora territori particolarmente nuovi, ma lo fa utilizzando un metodo nient’affatto consolatorio, frantumando le convenzioni del cinema di genere e avvicinandosi maggiormente a quegli autori che si sono interrogati sul tempo e la sostanza delle immagini.
Esperimento suggestivo e allo stesso tempo freddissimo, è difficile prevedere quali risultati potrà offrire al di là della qualità esplicitamente laboratoriale; si rimane certamente spiazzati dal progressivo sfaldarsi del set tra luci, ombre e fumo, dislocamento di elementi legati al cinema delle origini che lungo molti decenni hanno caratterizzato la rinascita del cinema a basso budget tra genere e suggestioni autoriali. Quest’ultime, più dei confini del primo, sono a rischio presunzione, ma siamo fortunatamente lontani anni luce dalla supponenza di un Winding Refn qualsiasi. Singer sconnette tutti i ponti con la tradizione eminentemente “visuale” sulla quale regge tutto il cinema del regista danese, puntando al contrario verso la stratificazione tra impatto aurale, lingua e fotosensibilità. Una riflessione per alcuni probabilmente “superata”. Catturati dal Padre Nostro blasfemo che Luz recita dall’inizio alla fine, come se fosse la luce di una nuova rivelazione, il cuore del flm ci sembra disseminato tra tutti i personaggi, ciascuno portatore di una diversa e convergente possessione. Quando Olarte chiede al Dr. Rossini dove e quando abbia imparato lo spagnolo, Rossini risponde “sin dalle sue origini”, facendosi beffa insieme a Singer di quel contrasto pretestuoso, riducibile alla lotta tra reazione e progresso. Quello che sembra suggerirci “Luz” è di dimenticare la nostra biografia, le illusioni della Storia ed infine quelle della propria identità.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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