Bientôt nous plongerons dans les froides ténèbres ;
Adieu, vive clarté de nos étés trop courts !
J’entends déjà tomber avec des chocs funèbres
Le bois retentissant sur le pavé des cours.
(Chant d’automne, Charles Baudelaire)
La breve parentesi francese di Tony Richardson, durata tra la metà del 1965 e la fine del 1966 per la produzione di un dittico, oltre alle vicende personali e al terremoto sentimentale che investirà la vita del regista inglese, deve essere contestualizzata in quell’evoluzione progressiva dalle forme originarie della New Wave britannica che aveva contribuito a codificare insieme a Lindsay Anderson e Karel Reisz, fin dalla militanza su “Sight & Sound”. Quell’assenza di vitalità che alla fine degli anni cinquanta Richardson rilevava nell’industria cinematografica del suo paese, attraverso le invettive vergate tra le pagine della nota rivista, era una dichiarazione di intenti che gli aveva sempre consentito di tenersi a distanza dalla tradizione realista di Grierson, preferendo quindi attitudine, imperfezione, improvvisazione e un linguaggio di volta in volta più complesso rispetto all’adozione scolastica di quelle traiettorie che caratterizzeranno il nuovo cinema a venire. Tra queste, più del vettore sociale, è importante evidenziare le spezzature e l’incedere jazzistico di una narrazione fortemente soggettiva, che arriverà fino agli esempi più situazionali della Swinging London, in quel deambulare dei personaggi, centrifugo e spesso a vuoto, rispetto ad una realtà sociale, politica e intima che non poteva più essere inquadrata nella messinscena.
Tom Jones rappresenta in tal senso la sintesi e lo spartiacque per il modo in cui gli elementi del cinema del reale vengono sottoposti ad una continua messa in abisso del dispositivo e delle sue convenzioni rappresentative, con un protagonista che entra ed esce dai cardini rigorosamente filologici della Storia.
In continuo movimento, il regista inglese aveva già sperimentato il confronto con altre culture e realtà produttive. Si chiudeva appena un anno prima la sua seconda esperienza americana e a differenza di quella fallimentare con Sanctuary, la realizzazione di The loved one si era svolta con modalità più apolidi e soprattutto con una maggiore libertà creativa, grazie ad accordi specifici dove Richardson chiedeva alla MGM totale autonomia. Reinterpretando le suggestioni del romanzo di Evelyn Waugh, riusciva quindi ad elaborare uno sguardo caustico e crudele sul sistema Hollywoodiano, da una prospettiva tutta britannica.
Se i due adattamenti americani risiedono su fronti opposti in termini di fedeltà, linguaggio e anche prospettive culturali, i processi che conducono alla realizzazione di Mademoiselle sono caratterizzati da una serie di influenze proteiformi, dove il dialogo con l’autore del soggetto è solo uno degli elementi in gioco; questo non sarà meno accidentato rispetto al confronto a tratti ostile con Waugh.
La sceneggiatura di Jean Genet gli viene proposta dal produttore Oscar Lewenstein, collaboratore di lungo corso anche tra le quinte teatrali e parte integrante della Woodfall, la casa di produzione cinematografica fondata dallo stesso Richardson, insieme ad Harry Saltzman e John Osborne, in occasione dell’adattamento per le sale di Look Back in anger, piece teatrale di quest’ultimo, e primo di una lunga serie di film prodotti, che oltre a tutto il percorso artistico di Richardson, includerà opere di Karel Reisz, Desmond Davis, Richard Lester, Peter Yates, Lindsay Anderson, Ken Loach.
Nello scrigno di soggetti per il cinema scritti dall’autore francese e mai realizzati, Mademoiselle contiene la consueta commistione di memoria e immaginazione, capace di trasfigurare l’esperienza biografica in una metafisica del baratro. La saturazione di eventi feroci e vicini ad una ritualità selvaggia, definisce una realtà svuotata da ogni qualità divina e occupata solo dalla relazione non riconciliata tra individuo e natura. L’azione soggettiva è irrimediabilmente votata al male, come forza distruttiva capace di generare solo catastrofi, dolore e crimine. Mademoiselle è un’insegnante chiusa in un mondo di fantasie erotiche inespresse, il cui unico scopo è sconvolgere la vita rurale di un piccolo paesino francese. L’oggetto del desiderio è un taglialegna stagionale giunto dall’Italia con un collega e insieme al figlio, una delle differenze del film con la sceneggiatura originale, che descriveva il piccolo nucleo di lavoranti in viaggio dalla Polonia.
La prima inondazione della vallata, artatamente causata dall’insegnante, imposta da subito i toni oscuri e amorali del racconto. Mademoiselle, interpretata da Jeanne Moreau, allenta il meccanismo della piccola diga con determinazione. Vestita con il nero di trine e merletti, i guanti in pizzo e i decollete a spillo, è un’eccedenza rispetto al paesaggio naturale. Strapparne i frutti è il capriccio della volontà che si oppone alla ieraticità della processione fotografata da David Watkin. La prospettiva scelta inscrive il corteo religioso nella superiorità della foresta. Una sacralità di cui Mademoiselle si fa beffe, recidendo il ramo di un melo in fiore per farne una ghirlanda e dopo l’osservazione di un contadino locale che riflette sulla bellezza capace di distruggere la vita, afferrando alcune uova di quaglia da un nido, per schiacciarle con un ghigno soddisfatto e maligno.
La forza incontrollata dell’acqua avanza senza alcun freno, mentre da una prospettiva opposta ma convergente alla crudeltà della donna, l’attività della pesca, fotografata con un’inversione dei rapporti dimensionali, domina dal fiume il percorso dei celebranti, suggerendo lo stesso tipo di relazione appena osservato durante il passaggio nel bosco. I frutti del fiume rimangono intrappolati in una rete, e non è meno crudele questa rapacità, anche se benedetta con l’aspersorio.
Una sequenza di gesti e violazioni apparentemente gratuite rivelano l’origine del desiderio. Richardson si serve della lezione realista applicata alla tradizione del cinema nero, attraverso la scansione dei dettagli. Questi sono gli elementi naturali e i feticci della cultura borghese, il lavoro dei contadini contrapposto alla cura con cui Mademoiselle ripone gli oggetti di un apparato iconologico che caratterizza la sua identità: i guanti e soprattutto i tacchi a spillo, ordinati in serie, come armi indicibili.
Lo sguardo del voyeur è doppiamente indirizzato e subisce uno slittamento rispetto alle convenzioni narrative con cui viene costruita la semiotica del desiderio. Mademoiselle lo dirotta altrove, negando allo spettatore ogni concessione. Ed è lei che individua dalla finestra il bell’italiano che con forza virile si lancia nell’acqua, salva pecore e cavalli dall’inondazione, presta con generosità e slancio fisico le proprie qualità per la coesione comunitaria.
Ettore Manni, attore conosciutissimo in Italia, che aveva lavorato molto a partire dai primi anni cinquanta, è Manou, corpo sessualizzato, oggetto del desiderio scrutato, pedinato, intrappolato nel gioco pulsionale stabilito dalla donna.
Se Genet dissemina elementi ed ossessioni che appartengono al suo universo biografico, senza che questi aderiscano ad un solo specifico personaggio, la natura delle relazioni e il rapporto che si stabilisce tra corpi e ambiente, dialogano attivamente con il cinema di Richardson e in parte con l’universo poetico di Marguerite Duras, curatrice dell’adattamento. Non è ovviamente un caso che al centro del successivo film di Richardson, il secondo prodotto in Francia, l’attesa di un desiderio indefinito e irraggiungibile sia modellata a partire da Le Marin de Gibraltar, il quarto romanzo della scrittrice e il primo ad allestire una geografia dell’assenza. Quel desiderio erratico, pur con una gradazione nettamente diversa, è già inscritto in Mademoiselle nella dinamica tra soggetto e oggetto del desiderio. Il Marinaio di Gibilterra è oggetto vacante, escluso dalla narrazione, ma proprio per questo motore del continuo vagare che informa la ricerca.
Manou è dichiaratamente un nomade, un lavoratore stagionale con un passato traumatico alle spalle, al centro del voyeurismo di Mademoiselle. Proprio l’atto di contemplazione del desiderio che consente di ricevere l’intensità dell’evento partecipando alla giusta distanza, è un motivo ricorrente nelle geometrie relazionali descritte da Duras. Tutte le sequenze in cui Mademoiselle assiste estatica ai processi di distruzione che scatenano gli elementi, dall’acqua al fuoco, contengono questa tensione verso qualcosa di incolmabile. Nell’incedere a vuoto che priva di una conclusione l’appagamento, la triangolazione del desiderio serve come sostituzione e mezzo per raggiungere l’ineffabile. Ne il Marinaio di Gibilterra sono i passeggeri che si avvicendano sullo Yacht, impermanenti ed evanescenti, mentre in Mademoiselle è Bruno, il figlio di Manou, strumento di passaggio per arrivare al padre. Il fatto che Genet nella sceneggiatura originale sopprima Mademoiselle, mentre Bruno, immobile, la osserva annegare, non è secondario. Nel film di Richardson diventa invece, durasianamente, immagine della mancanza, sbarazzandosi dell’oggetto dei propri desideri e riconducendolo nella dimensione nostalgica, un’elegia del vuoto che risuonerà nei versi di Baudelaire dettati agli allievi.
L’amore per la nouvelle vague che conduce Richardson alla scelta di Jeanne Moreau si riflette sulla sua stessa vita personale e sembra riscriverne la vita, nel difficile ménage à trois che coinvolge Vanessa Redgrave. Moreau aveva già introdotto con Peter Brook il suo percorso come icona e alter ego durasiano e il regista inglese si trova a mettere insieme le schegge di un immaginario per certi versi fondativo, che da Truffaut conduce alla scrittrice francese e a Moreau. Ma in Mademoiselle, sono altri aspetti a reagire rispetto a tutto ciò che già accomunava quel cinema francese al percorso della nuova onda inglese, attraverso la decostruzione del racconto e nel continuo disvelamento del dispositivo, ovvero quella riconfigurazione dello sguardo e della relazione con lo spettatore che era in realtà molto più esplicita e radicale in un film come Tom Jones.
Qui Richardson piega il film dalle parti di un simbolismo viscerale, vicino all’universo poetico di Genet e alle riflessioni che accompagnavano Les Bonnes. Proprio nella prefazione al suo lavoro teatrale, l’autore francese definiva il desiderio di elaborare l’arte come rete profonda di simboli, veicolata da un linguaggio capace di parlare al pubblico senza le forme dell’enunciazione, ma secondo la qualità di un presagio.
Flora e soprattutto fauna, servono un immaginario che attinge dalla tradizione surrealista fino al Buñuel metà anni sessanta, ma mirano anche a quella densità delle cose che nel cinema di Robert Bresson conduce alla rarefazione e all’astrazione.
Il propellente simbolico è allora tanto evidente, quanto sfuggente e polisemico nel suo promanare da una ramificazione ontologica del male.
Il vero nome di Mademoiselle viene sostituito dalla deificazione che i contadini e il cosmo di paesani operosi assegnano alla sua presenza. Una distanza che diventa evidente nelle aule della piccola scuola, dove il figlio di Manou viene deriso, umiliato per i vestiti e il suo aspetto, ed infine spinto esemplarmente ad una devozione che nasce dal disprezzo subito.
L’analisi del potere come sfondo in cui si muovono individui disillusi, persi tra inettitudine, ansia di riscatto e l’impossibilità di integrarsi nel contesto socioculturale corrente, caratterizza lo spaesamento di molti personaggi del cinema inglese degli anni sessanta, almeno da Room at the top di Jack Clayton in poi. Manou, per libertà e sfrontatezza, è una figura vicina all’universo maschile del cinema di Richardson. Vedovo, ma refrattario ad ogni convenzione sentimentale, esprime un’energia apollinea non così distante dallo spirito picaresco di Tom Jones. Decifra il reale attraverso il lavoro, il sesso e il viaggio, per trovarsi in una condizione non dissimile da quella di Tom quando è osservato, braccato, inquadrato socialmente dall’aristocrazia femminile.
Il microcosmo paesano la cui sopravvivenza è determinata da un equilibrio condiviso tra natura e comunità, assegna un valore negativo al nomadismo di Manou. Tutte le catastrofi che compromettono l’armonia del luogo, dalle inondazioni agli incendi improvvisi, fino all’avvelenamento degli animali, vengono immaginate come eventi scatenati dall’italiano.
Mademoiselle è al contrario considerata intangibile. I pretesti per osservare l’uomo dal buco della serratura sono simulazioni di realtà che rimettono in scena i topoi del cinema realista stesso, con una sovrapposizione aberrante tra boutade e tragedia. Richardson non sfrutta le accelerazioni del dispositivo, la manipolazione dell’elemento temporale, l’indirizzamento diretto alla presenza dell’osservatore, ma preferisce staccarsi dal lessico che ancora caratterizzava un film come Morgan – A Suitable Case for Treatment, l’opera allora più recente di Karel Reisz, svuotando l’immagine da qualsiasi elemento accessorio, incluso l’utilizzo di musica extradiegetica. Il tempo è allora una questione interna all’immagine stessa e si manifesta, per contrasto, tra l’arcaicità di figure incorporate nel paesaggio rurale e la forza distruttiva della coscienza che rompe la percezione immutabile di quel mondo.
Una delle sequenze più chiare e potenti in tal senso è nel gesto gratuito di Jeanne Moreau mentre fuma una sigaretta nella notte. Prima di appiccare un incendio, si divertirà a bruciare con il mozzicone i germogli di un albero in fiore. La noia, rispetto a quell’eternità ancestrale, è il segno di un contrasto vivo tra gli stimoli della città e la realtà isolata della campagna. Il personaggio interpretato da Jeanne Moreau la esprime con la sua presenza indolente in tutti gli spazi comunitari del paese. Curiosità e gioia amorale sono quelle di un bambino quando tortura una lucertola viva.
Gli animali per Richardson diventano un doppio veicolo. Vittime della crudele brutalità e insoddisfazione degli individui, oppure forme simboliche del racconto che determinano, al contrario, un’inesplicabile fusione tra umano e non umano.
Viene interiorizzata in questo ambito secluso e lontano dalla realtà urbana, quella relazione dinamica tra città e campagna che è uno dei tratti comuni a tutta la New Wave britannica.
Se alla città oppure dalla città, ci si arriva o ci si allontana momentaneamente per immaginarsi un futuro possibile e per ritrovare se stessi, la dicotomia tra i due mondi non è mai così binaria.
Se pensiamo a titoli come The System di Michael Winner, Girl With Green Eyes di Desmond Davis, Sparrows can’t sing di Joan Littlewood ma anche Billy The Liar e Darling entrambi di John Schlesinger, tutti realizzati tra il 1963 e il 1965, la fuga e lo spaesamento rispetto alle proprie origini, è un movimento centrifugo che avviene in entrambe le direzioni, caratterizzando l’esperienza cittadina e quella extraurbana come epifanie instabili, determinate dalla sconnessione tra quotidianità e desiderio. Ciò che muove in una direzione o in un altra, non è la contrapposizione statica e visuale del paesaggio, ma la qualità transitoria del viaggio.
L’inconciliabilità e l’irresolutezza di questo dissidio viene contratta in Mademoiselle da una collisione di un mondo dentro un altro, convergenze letali che informeranno molto horror britannico, da Wicker Man di Hardy/Shaffer a Penda’s Fen, rarissima incursione nel “genere” da parte di Alan Clarke.
Se allora sembra sin troppo esplicito il simbolismo che assegna al serpente attorcigliato al ventre di Manou la valenza di una conoscenza carnale altrimenti sul limite dell’infilmabile per il 1966, la qualità figurale e allo stesso tempo immersa nella realtà atemporale della foresta, appartiene tanto al gotico inglese per come lo aveva ricodificato Jack Clayton con The Innocents, quanto al modo in cui Richardson derealizza elementi del quotidiano per estenderne la valenza, basta pensare alla sequenza del cimitero in A taste of honey, disseminata di epifanie, animali morti e oggetti inerenti la realtà empirica e allo stesso tempo interiore dei personaggi.
La stessa Moreau, vestita da Jocelyn Rickards, indossa i feticci dell’erotismo già definiti dall’immaginario cinematografico noir, per rivelare attraverso il travestimento un rimosso esplicito rispetto al ruolo destinatogli dalla comunità. La fusione con gli elementi della fauna silvestre spingeranno all’imitazione fonetica subito dopo gli amplessi con Manou, consumati tra i campi e nella foresta. Una comunione con una natura fino a quel momento rifiutata, che corrisponderà a momentanea svestizione. Segno ulteriore di un confronto tra natura e cultura che non può essere liquidato con un’analisi oppositiva e binaria.
I versi di Baudelaire di cui parlavamo, dettati agli allievi poco prima che Manou venga massacrato dai contadini e che Mademoiselle lasci il paese tornando ad essere un’apparenza incorporea e una figura cultuale, descrivono quello spaesamento di cui parlavamo, che emerge dalla discrepanza tra tempo e desiderio.
Chant d’automne è inscritto anche nell’avanzare dell’orrore urbano, esperienza inconoscibile e incontrollata, dove i tonfi continui che il poeta percepisce, passano dalle bare alle impalcature, dalle tracce celate di una natura scomparsa alle architetture che ricordano il freddo meccanismo di un patibolo.
Chi è allora Mademoiselle, nel suo rispecchiarsi e rifiutarsi attraverso la contemplazione negativa della natura? L’ombra della morte? Una vergine in nero? L’individuo di una società superficialmente morale che nega le proprie pulsioni? Oppure ancora, colei che consente ad un’intera comunità di mostrare la violenza e l’orrore che si cela sotto la conservazione delle tradizioni?
Quel senso della perdita che attraversa tutti i personaggi di Tony Richardson, pronti ad affrontare il vuoto del presente verso un futuro vacante, ci consente di individuarla in uno spazio provvisorio. Ovvero in quello scarto continuo tra realtà e auto-rappresentazione, che sostituisce il reale con i segni del reale.
E il diavolo ha riso di Tony Richardson (Mademoiselle, Francia, UK – 1966 – 103 min)
Interpreti: Jeanne Moreau, Ettore Manni, Umberto Orsini, Keith Skinner, Georges Aubert, Jane Beretta, Paul Barge, Pierre Collet, Gérard Darrieu, Jean Gras, Gabriel Gobin, Rosine Luguet, Antoine Marin, Georges Douking, Jacques Monod, Mony Rey
Sceneggiatura: Marguerite Duras, Jean Genet
Montaggio: Sophie Coussein (Versione Francese) Antony Gibbs
Costumi: Jocelyn Rickards