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Maldoror di Fabrice Du Welz: recensione, Venezia 81

Maldoror è il film più ambizioso e coraggioso di Fabrice Du Welz. Prende le mosse dai fatti criminali legati al mostro di Marcinelle, ma indaga un'altra mostruosità, più ampia, antropologica ed esistenziale. Le possibilità del male annichiliscono e rovesciano la posizione di qualsiasi eroe a contatto con il cuore nero del mondo. La recensione del film presentato a Venezia 81 fuori concorso

Su Marc Dutroux, il cosiddetto mostro di Marcinelle, Fabrice Du Welz ha svolto un’accurata ricerca per ricostruire il sentimento di quegli anni, ma attraverso la storia minima di una famiglia di immigrati siciliani, la cui importante presenza in Belgio ha radici arcaiche che risalgono al Rinascimento.

La vicenda criminale che scosse il piccolo stato monarchico tra il 1995 e il 1996 e che coinvolse un ex elettricista accusato di sequestro e sevizie nei confronti di bambini e adolescenti, fino all’apice che porterà alla morte per stenti Julie e Melissa, entrambe di otto anni, viene riletta dal regista belga attraverso una serie di fonti eterogenee, tra cui molto probabilmente le testimonianze di Marc Toussaint raccolte nel volume intitolato “Tous Manipulés”. Il libro dell’ex gendarme sospeso dalle indagini durante la caccia al mostro, evidenzia tutte le disfunzioni della polizia federale nel suo complesso, tra gendarmeria e sistema giudiziario. Un disclaimer che introduce il film indica chiaramente questo punto di vista, ma è soprattutto il personaggio finzionale di Paul Chartier, l’agente interpretato da un intenso Anthony Bajon, a ripercorrere parzialmente l’esperienza di Toussaint.

La collisione frontale con i suoi superiori per i ritardi, le omissioni e la cattiva gestione delle indagini, la sottrazione di elementi documentali, il tentativo di intraprendere una strada ostinata e non ortodossa contro i sabotaggi dei suoi superiori ed infine, a far da collante, l’ipotesi che dietro questa inefficienza si nasconda una rete più ampia, tra istituzioni e figure illustri, legata al traffico della pedofilia, sono tutti elementi che accomunano la ricerca capillare di Toussaint con il percorso narrativo costruito da Du Welz insieme a Domenico La Porta.

Ma Chartier è anche una figura perfettamente inserita nella galleria poetica di Du Welz, per lo spaesamento traumatico subito all’interno di un sistema collettivo corrotto, che lo costringe ad una ricerca impossibile. In quel contesto, i limiti tra umano e bestiale si confondono dietro le regole apparenti che tengono in piedi un’intera comunità, a partire dall’elemento minimo nucleare.

La famiglia, centrale in tutti i film di Du Welz per negazione o riconfigurazione identitaria estrema, in Maldoror viene osservata attraverso un prisma che mette insieme modelli e declinazioni diverse, per problematizzarne l’origine e il senso di appartenenza.

Il paesaggio industriale di Charleroi è un contenitore sociale che diventa immagine claustrofobica del declino, una minaccia plumbea che affligge la vita quotidiana e che ritorna continuamente come ossessivo contrappunto visuale dove il punto di vista è quello di un’alterità derealizzata.

All’interno sembra resistere solo la brulicante vitalità siciliana, ancora legata a forme di condivisione tradizionali, descritte da Du Welz con un’aderenza ravvicinata ai volti, i rituali e le attitudini. Paul vive allora il contrasto tra il progressivo deragliamento personale e professionale nella routine lavorativa e la sua nuova famiglia d’adozione, attraverso l’erotismo semplice e diretto di Gina, la moglie interpretata da un Alba Gaïa Bellugi che è l’esatto opposto del rimosso distruttivo di derivazione noir interpretato per Inexorable, il precedente film del regista belga.

In quell’inabissamento della coscienza nei recessi oscuri dell’umano, che da Cruising in poi caratterizza la contaminazione tra legge e male, Paul è uno di quei personaggi che si perdono e subiscono la corruzione di un’intera comunità mettendo a rischio la coesione tra i due mondi.
Du Welz stesso, attiva uno sguardo concitato vicino ai fatti e allo stesso tempo rileva l’aberrazione grottesca nelle pieghe del reale.

Il personaggio di Hinkel per esempio, superiore di Chartier interpretato da un notevole Laurent Lucas, è una maschera mostruosa. Volto ricucito da enormi cicatrici e con una benda nera che copre l’occhio destro, sembra un personaggio uscito da una surrealtà parallela, un’incarnazione cinica di tutto il male vicino allo sceriffo di Reflecting Skin, il gotico di Philip Ridley dove le forze dell’ordine osservano silenti la disgregazione di una piccola comunità rurale, lasciando che ad essere stuprati e uccisi siano i bambini.

L’infanzia nel film di Du Welz rimane sapientemente fuori campo, individuata di sfuggita attraverso il catodo che trasmette le notizie del giorno o nelle videocassette ritrovate da Paul durante le indagini, dove l’orrore è solamente accennato.

Emerge invece tutto il marcio di una realtà predatoria, dove la bestia è scolpita nei volti di un’umanità sul bordo, raccontata ai margini della scala sociale. Sono i volti di un’altra famiglia rispetto a quella siciliana, dove le pulsioni non hanno alcun limite e i corpi servono come oggetti da smembrare, vero e proprio concime per una terra vorace.

La dimensione più grafica del cinema di Du Welz viene allora sublimata attraverso la rappresentazione della morte come decomposizione, con due sequenze in particolare che hanno una qualità più astratta rispetto alle drammaturgie della sua filmografia, ma non perdono quella irriducibilità che nel cinema del belga consiste in una relazione totalizzante e profonda con tutte le gradazioni dell’esperienza umana, incluso l’indicibile che emerge dall’annullamento delle distanze tra natura e cultura.
Paul improvvisamente precipitato nel liquame dove sguazza una grande scrofa, con i monconi di alcuni cadaveri che formano un pasto mostruoso e la costrizione orale a cui viene sottoposta una donna da uno dei killer seriali, con il piede di un cadavere utilizzato come oggetto sessuale.

La crudeltà è quella abissale di Lautréamont e dei suoi canti di Maldoror, dove le possibilità del male annichiliscono e rovesciano la posizione di qualsiasi eroe a contatto con il cuore nero del mondo e sempre più distante da un Dio che può solo essere invocato con una bestemmia.
Ed è in fondo la poetica potente e mai riconciliata di Du Welz, dove il reale è costantemente sovvertito da un’alterità oscura che potremmo alternativamente definire come mostruosa, surreale, indifferente nella dimensione radicale della bestia.

Ecco che Chartier diventa un’altra figura sacrificale tra altre nella filmografia del regista belga.
Il sacrificio estremo è quello della disgregazione di ogni sogno, la distruzione del proprio futuro, la fine dell’amore famigliare, l’annichilimento rispetto ad un sistema dove non si salva nessuno.
Mentre Paul penetra un mondo che lo distrugge, altrove è la famiglia siciliana a intravedere una via apolide e inclusiva, nel melting pot di lingua e tradizioni. Non solo l’incredibile e salvifica sezione che descrive il matrimonio del giovane gendarme con Gina, ma l’accoglienza di questa nei confronti della suocera, figura dolente, persa nelle sue dipendenze eppure profondamente vitale e capace di offrire amore.

E forse, il rifiuto di ogni eccedenza inclusi i difetti della madre, nell’illusione di ricostruirsi una famiglia perfetta, spinge Paul dall’altro lato dello specchio, quello dell’ossessione per il bene alla base di tutti i sistemi proibizionisti, che al contrario spalanca le porte dell’abisso.

Du Welz realizza il suo film più ambizioso, fluviale e dolente, dove l’espansione della durata che descrive il quotidiano, dimostra l’acuto talento antropologico di un autore coraggioso che non scende mai a compromessi.

E Maldoror è sicuramente il film più politico del regista belga, lo conferma la dedica a Tobe Hooper nei titoli di coda che sostituisce l’amore per John Dahl e le femmine folli del noir nel film precedente.

Politico perché aiuta a comprendere le radici di quella rivolta feroce della maternità e dell’infanzia che chiudeva il bellissimo Vinyan.

Politico perché affronta un tabù ancora difficile per tutta la società belga, che diventa sguardo vibrante sul contemporaneo, dove il futuro dell’economia industriale è una natura morta e il popolo, nel bene e nel male, accoglie i segnali di una dimensione arcaica mai definitivamente soppressa dalla velocità del progresso.

Qui la natura grida solo attraverso i versi di una scrofa, mentre ovunque viene contraffatta, abusata e camuffata dai privilegi che lo Stato di Diritto può garantire.

Non è affatto didascalico Du Welz, tutto rimane incorporato nel mistero dell’esistenza, nella visione periferica, nelle indicazioni di un complotto intravisto. L’uomo e la bestia sono le uniche forme antipodali che possiamo sperimentare, mentre l’abbraccio mortale del potere decide cosa è bene e cosa è male.

Maldoror di Fabrice Du Welz (Belgio, Francia 2024 – 155 min)
Sceneggiatura: Domenico La Porta, Fabrice du Welz
Interpreti: Anthony Bajon, Alba Gaïa Bellugi, Alexis Manenti, Sergi López, Laurent Lucas, David Murgia, Béatrice Dalle, Lubna Azabal, Jackie Berroyer, Mélanie Doutey, Félix Maritaud
Fotografia: Manu Dacosse
Montaggio: Nico Leunen
Musica: Vincent Cahay

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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