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Malqueridas di Tana Gilbert: recensione – Venezia 80

Il carcere, un mondo separato dal mondo che si può solo scrutare. Tana Gilbert raccoglie i video clandestini di un gruppo di detenute cilene e insieme a Karina Sanchez costruisce un racconto testimoniale commovente e terribile. Visto a Venezia 80 nella sezione parallela de La Settimana Della Critica.

Una delle caratteristiche più discusse della nostra relazione con i dispositivi smart che consentono di aggredire la morte intrinseca ai soggetti fotografati per moltiplicazione, è quanto e soprattutto come le sfere interconnesse siano in grado di preservare un “punctum” soggettivo, cioè la possibilità che un’immagine attivi sollecitazioni intime al di fuori del flusso, ricreando quel contrasto tra il tempo degli ipermedia e l’intensità della rappresentazione. Quel “c’era” ancora in grado di ferirci.

Nelle carceri cilene, ma vorremmo precisare per chi si illude di vivere nel miglior mondo possibile, anche in quelle italiane, l’utilizzo degli smartphone è severamente vietato. Quelli presenti sono introdotti clandestinamente. Deliranti misure di sicurezza che cambiano nome in base alle priorità del regime in carica, annichiliscono tutta la comunità ristretta, riducendone le facoltà a quelle di una bestia in gabbia.

Tana Gilbert ha raccolto i video di alcune detenute, realizzati con il telefonino in condizioni precarie. Immagini tagliate fuori dalla circolazione condivisa della collettività, istantanee effimere destinate all’oblio.

Su questo sguardo periferico dove l’occhio e il dispositivo coesistono nell’individuazione del confine tra ciò che può essere filmato e la paura di essere scoperti, la regista cilena combina una narrazione testimoniale con l’aiuto di Karina Sanchez, la cui passata esperienza in carcere fa da connettore per le storie di venti detenute.

Le immagini, lasciate nel loro formato verticale originale, definiscono lo spazio e le possibilità stesse dello sguardo; una fessura intermittente tra le sbarre e altri ostacoli. Sono sprazzi di un’ipovisione, costantemente a rischio, che mostrano l’altro lato dell’ecosistema di sorveglianza.

I contributi molteplici confluiscono nella narrazione di Karina, che costruisce un unico personaggio vicino a quelle storie.

La maternità tra le mura di una prigione è il cuore pulsante di questa collettività e rivela in modo doloroso la sconnessione tragica tra dentro e fuori, dove la comunità che crea e alimenta le carceri getta la chiave e acceca quel mondo oltre le regole della civiltà.

Un figlio o è dentro oppure è fuori. Il punto di vista angusto sugli spazi dove viene ammessa la convivenza, rivela l’assenza di tutele e di strutture adeguate; la prigione diventa allora un orizzonte negativo per la formazione di chi ci è nato. La chiusura e l’apertura degli spazi, nonostante il mondo possa esaurirsi con il corpo della madre, viene percepita dai bambini con una chiarezza che corrisponde alla violenza di stato.

Il trattamento in post dei frammenti, serve a Gilbert per costruire una poesia dolente della cattività, ma anche per rendere persistenti impressioni labili, prossime ad un’entropia inesorabile.

La forza di Malqueridas risiede proprio sul limite tra visione e cecità, lo stesso che separa l’isolamento forzato dall’idea di città.

Non si è mai certi di ciò che si vede, al di là dei volti, dei corpi, dei tatuaggi fotografati e di tutti quei segni che costituiscono gli appigli identitari legati alla descrizione di una comunità dimenticata.

Questo lavoro sulle immagini, che Gilbert stessa ha definito materico, contrappone in modo flagrante la molteplicità del flusso quotidiano di immagini, condivise tra i profili e i feed della civiltà che consuma, con il vicolo cieco di uno sguardo senza spettatori.

Se la fragilità di alcuni video prende vita grazie alla costruzione di senso che Sanchez assegna, la loro qualità instabile che rende il contesto inconoscibile, contribuisce a rilevare l’oscurità di un mondo che si può solo scrutare.

Mentre le fotografie che ogni giorno pubblichiamo e assimiliamo in rete, cercano disperatamente di cancellare la nostra morte quotidiana, eternando l’idea di istante per reiterazione e costruendo l’illusione del “qui e ora”, le immagini rubate dalle detenute cilene, raccontano meglio di ogni altra cosa la scomparsa della persona e della memoria nel contesto carcerario.

E quale immagine più forte per raccontare l’isolamento penitenziario, se non quella di un occhio digitale che cerca disperatamente un riflesso di luce, nel momento in cui la civiltà viene distrutta?

Malqueridas di Tana Gilbert (Cile, Germania – 2023 – 74 min)
Sceneggiatura: Tana Gilbert, Paula Castillo, Karina Sanchez, Javiera Velozo
Montaggio: Javiera Velozo, Tana Gilbert
Fotografia: i video e le foto delle detenute cilene

RASSEGNA PANORAMICA
Voto
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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