I mostri della lirica, in un’accezione larghissima e appunto “mostruosa” sono numerosi, da Madame Masako Oya, eccentrica mecenatessa con dubbie doti canore, che oltre all’attività di promozione musicale in Giappone non si limitò affatto nel canto fino alla portoghese Natalia De Andrade, figura furiosamente folle capace di infondere alla voce la profondità cavernosa di un rantolo. Tra queste, la statunitense Florence Foster Jenkins rappresenta l’esempio più famoso; ricca e stonata più delle altre, arriva a pagarsi una sala per esibirsi in mezzo ad un folto pubblico di amici e conoscenti, incidendo alcuni brani d’opera per la RCA che ancora conserva il patrimonio, ristampato in anni più recenti anche su CD.
Xavier Giannoli dice di essersi ispirato proprio a lei per costruire il personaggio di Marguerite Dumont, ma al primo decennio del novecento americano, sostituisce gli anni venti della provincia Parigina, tra le istanze del mondo borghese e la furia rivoluzionaria del movimento Dada, tanto da ritagliare, nella ricca galleria di personaggi del film, uno spazio per l’anarchico Kyril, chiaramente modellato sulla figura di Tristan Tzara. Ed è proprio entro questi due antipodi che Giannoli elabora la figura della ricca cantante stonata alla quale nessuno dice la verità riguardo le sue reali doti.
Per il mondo Borghese, Marguerite è una ricca eccentrica da assecondare nel suo delirio rappresentativo, in virtù di un potere economico sul quale si regge il circolo di ricostruzione post-bellico di cui fa parte il marito; per i Dadaisti rappresenta al contrario il simbolo dell’espressione selvaggia attraverso il quale diventa possibile minare dall’interno la struttura del linguaggio e far crollare tutte le convenzioni rappresentative, tanto da volerla coinvolgere negli happening che al canto uniscono le sperimentazioni sul movimento e sulla parola.
La storia della Foster Jenkins rappresenta quindi solo uno spunto, a partire dal quale Giannoli porta avanti un personale discorso sul rapporto tra verità e finzione che in Superstar rimaneva ancorato alla superficie dei new media. Ma quello che ci sembrava un limite nel film del 2012, a un certo punto sin troppo scoperto nel giocare con il concetto di immaterialità dei social network, qui acquisisce nuova forza attraverso una perversissima ambivalenza. Da una parte Marguerite Dumont emerge in un mondo di freak non così diversi da lei nel doversi ritagliare uno spazio secondo il principio per cui “esistere è insistere”, come gli suggerirà il maestro Atos Pezzini, cantante nella fase del declino assunto dalla donna per insegnarle l’arte del canto lirico, garantendo quindi al film una superficie che moltiplica l’apologo sul concetto di diversità; ma Giannoli, sin dalla prima sequenza infesta “Marguerite” di occhi, di fessure e spioncini attraverso i quali poter scrutare la realtà, di lastre fotografiche, camere oscure, grammofoni e i foto-ritratti di Marguerite stessa; riflessi che diventano, con una tendenza del tutto opposta a quella del cinema che ricostruisce una storia mai stata, vera e propria denigrazione dell’occhio, epitaffio cinico sul recupero nostalgico delle illusioni, polvere di stelle inclusa.
L’opera si fonde allora con l’avanspettacolo più triviale, capace di accogliere le donne barbute alla Tod Browning, i soprani en travestì incagliati in una replica infinita de “I Pagliacci”, e lo spettacolo diventa sempre di più come l’incubo del vedersi visti, fino a simulacro, en abyme, della propria esibizione, ormai irriconoscibile perché riprodotta da un dispositivo meccanico che la vampirizza.
Il personaggio di Madelbos (Denis Mpunga) demiurgo quasi demoniaco e burattinaio di questa ipertrofia dell’occhio, fotografa, conserva e archivia i foto-ritratti di Marguerite, preservando ad ogni costo l’integrità dell’illusione, ma sarà sempre lui, dopo una protezione feroce di quell’area rappresentativa intangibile, a decretarne la rottura. Le sue parole ci illudono sulle intenzioni, nobilissime, dell’ultima foto, il cui scopo è consegnare la morte dell’eroina a memoria eterna completando così un capolavoro. Ma il punto di vista soggettivo che scatta non ha la vitalità di un atto creativo, al contrario è distruttivo e inesorabile come il colpo di un’arma da fuoco, e l’occhio per Giannoli, come gli smartphone, uccide.