Garth Davis, già regista di “Lion – La strada verso casa”, reinventa per gli schermi, nel tentativo di restituirle verità storica, quella che è forse la più complessa ed enigmatica tra le figure evangeliche: Maria Maddalena, per lungo tempo erroneamente creduta prostituta, ora santa elevata ad “apostola tra gli apostoli” (n.d.r. sulle tracce di Elaine Pagelse dei vangeli gnostici si era mosso anche Abel Ferrara).
Che l’impresa sia più o meno fedelmente riuscita, è sterile, oltre che difficile, constatarlo. Il suo resta per ontologia un film di fiction; come tale va accolto, compreso, tassonomizzato.
“Più spirituale che religioso” a detta di Rooney Mara, che a Maria presta tutto di sé: gli occhi indaco, la fisicità eterea, il sorriso accogliente, di una dolcezza inedita sul suo volto. L’attrice ha ragione: è questo un film in primo luogo umanista, che parla agli uomini e degli uomini, del loro essere caduchi nel mondo, pellegrini di passaggio dalla corporeità corruttibile, da sempre però capaci di un sentire più alto, slancio dagli abissi, qui presenza visiva costante, verso la luce di un amore totalizzante, al di fuori di ogni comprensione terrena.
La Maddalena avverte in sé il seme di questa possibilità, ne sente il peso, subisce il tormento. Cresciuta in un nucleo familiare patriarcale, specchio della società di ieri (e oggi), con il cui volere non coincide il suo, diventa allora la resistente. Brutalmente esorcizzata perché tra le altre eccezionale, incontra l’occasione di vivere una vita autentica, indipendente, nelle parole, poche ma rivelatrici, e nel corpo del Rabbi.
Se la spiccata caratterizzazione femminista risulta certo originale e apprezzabile, ma a lungo andare ostentata e retorica, il Gesù di Joaquin Phoenix è l’azzardo più interessante compiuto dalle sceneggiatrici Helen Edmundson e Philippa Goslett, dissimile da ogni altro suo predecessore cinematografico, sfuggente nella sua aura mistica, eppure dotato di un’empatia nuova, appunto corporea, al di là di ogni fraintendimento “morboso”. E’ un Messia massiccio, che infonde pienezza con la sola forza di uno sguardo, resuscita con un abbraccio, sorregge sul pelo dell’acqua, e d’altro canto disorienta, si preoccupa, si fa accarezzare la testa anche lui bisognoso di conforto.
La sua parabola è raccontata attraverso lo sguardo della fedele di Magdala: scorcio parziale sulle vicende, proprio per questo capace di metterle ancora una volta in prospettiva. A partire da una sensibilità intimamente personale, conferisce loro un valore capace di trascendere qualsiasi particolarismo, persino, paradossalmente, religioso. Unica, in modo fin troppo semplicistico, a comprendere il messaggio di umana compassione, monumento di una Chiesa dello spirito tra gli apostoli, delineati, eccezion fatta per un giovane Giuda (l’ottimo Tahar Rahim) in cui gradualmente germoglia la follia, in modo macchiettistico: un Pietro (Chiwetel Ejofor) ossessionato da progetti di rivalsa politica, gli altri non pervenuti, fantocci riempitivi di inquadratura.
Buone sono in definitiva le intuizioni, curata la forma, per un film che si ferma però, a conti fatti, all’esercizio di stile. La narrazione scorre pulita, tenue ma avvincente, la fotografia, pur patinata, è suggestiva, complici i paesaggi dell’ormai nota, in tale contesto, Basilicata; rimane un’irrisolutezza di fondo, l’idea che questa Maria Maddalena dal girl power ante litteram avrebbe potuto volare più alto se spogliata di una simbologia ridondante e calata in uno scenario tridimensionale.