Un mediometraggio da guardare su uno schermo grandissimo, perché fatto letteralmente di pezzetti di carta. Michel Gondry è da sempre il genio del bric-a-brac, prima ancora di South Park.
Questa minuscola produzione privata, divenuta pubblica a mo’ di regalo, nasce durante il covid per via della distanza tra padre e figlia. Il padre inizia a usare il telefonino, per lui strumento più visivo che audio o di ping-pong parolaio, e assembla dei clippini on demand a 12 fps.
Maya gli dà un titolo e Michel parte in quarta con la sua fantasia sfrenata e il dono unico di riuscire a fare, empiricamente, qualsiasi cosa. Maya nel mare con una bottiglia di ketchup. Maya poliziotta e i tre gatti Charto (con la coda a martello), Boumbaf (coi guanti da pugile) e Crocroc (con la bocca larghissima) che rubano e vengono arrestati da dei poliziotti che però son farlocchi e allora finiscono tutti in prigione che però è a sua volta farlocca e allora arriva un robot gigante che porta tutto e tutti nella prigione delle prigioni farlocche… e avanti così, favole improvvisate della buonanotte tra fogli tagliuzzati e strisce di scotch, pennarelli a go-go, grado zero dell’animazione e massimo grado dell’immaginazione.
Per i sottotitoli c’è persino uno spazio apposito, oblungo e colorato.
Una ninna nanna strampalata, questo Maya donne-moi un titre, che è anche un irresistibile concentrato di Gondry. Come uno zoom pazzerello su tutte le digressioni amanuensi dei suoi film più tradizionali, un videoclip a zero budget, un omaggio selvaggio a Jules Verne.
Gondry parla una lingua unica al mondo, e questo piccolo film di lessico famigliare sfoggia un fascino autentico, antico, irripetibile. Fuori da ogni logica di mercato. E dire che solo di questo avremmo davvero bisogno.