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Melk di Stefanie Kolk: recensione – Venezia 80

Intorno ad una maternità disattesa, Stefanie Kolk costruisce un film notevole, dove la reiterazione ostinata della donazione come prassi, si oppone alla spietata univocità della durata. Visto a Venezia 80 nella sezione Giornate degli Autori

Quando il bimbo di Robin nasce morto, il dolore della madre viene acuito dalla produzione di latte bilanciata dal processo ormonale. Una beffa della natura che la donna, insieme al compagno Jonas, decide di sfruttare per contribuire al bene altrui. La donazione del nutrimento vitale per chi non riesce a produrne autonomamente, acquisisce i termini di una missione filantropica che potrebbe attenuare le sofferenze, se non fosse per i meccanismi burocratici concepiti per allontanare Robin da un obiettivo perseguito con ostinazione e tenacia.

Melk, opera prima della regista olandese Stefanie Kolk, ruota attorno all’elaborazione di una perdita, attraverso il riconoscimento delle funzioni corporee come possibile prosecuzione del flusso vitale. Una ricerca dell’empatia dentro l’involucro privo di picchi emotivi, a cui la temporalità quotidiana ci sottopone.

Ed è su questa qualità osservazionale che Melk evita la teatralizzazione dei sentimenti, immergendo i personaggi nello spazio inerte determinato dalle cose.

Una di queste è la pompa tiralatte utilizzata da Robin per l’estrazione dal seno, prima affidata ad un processo manuale, in seguito completata grazie ad un dispositivo elettrico. Il rumore del pompaggio, sempre uguale e riconoscibile, suggerisce l’assenza del calore filiale, attraverso la postura della donna e la prassi meccanica. Quel vuoto, percepibile nella composizione delle inquadrature sorretta da un’architettura della visione concepita a distanza, azzera la necessità di ricorrere alla parola per riempirlo, ed elabora un cinema del silenzio che testimonia l’immobilità del tempo, più del suo fluire.

Prospettiva interessante che esaurisce quel grado di intensità poetica percepita troppo spesso come una condizione connaturata alla messa in scena della temporalità, per favorire uno svuotamento dell’immagine da tutte le cristallizzazioni possibili.

Non c’è quindi alcuna astrazione dal flusso che consenta di percepire l’ecosistema psicologico dei soggetti. Questi affrontano l’inerzia degli eventi come la buccia d’arancia abbandonata sul tavolo della cucina di Robin, osservato per un minuto intero prima che la donna entri nella stanza.

Nella ridotta gamma espressiva della notevole Frieda Barnhard, più delle impercettibili sfumature umorali, equidistanti dallo spettatore per tutto il film, colpisce il modo in cui la reiterazione di una prassi si opponga con ostinata regolarità alla spietata univocità della durata.

Il sistema burocratico che impedisce a Robin la distribuzione del suo latte per un inesistente rischio infettivo, determina l’organizzazione dell’intera realtà attraverso una temporalità imposta che è molto vicina a quella sperimentata da tutti noi attraverso le misure, razionali o meno, allestite per contenere il contagio durante la pandemia.

A questa temporalità artificiale che influenza anche la percezione dello spazio domestico, Kolk mette di traverso un’organizzazione del reale parallela, basata sulla sostanza oggettivata della fiducia.

Lo stoccaggio del latte, il frigo che lo conserva in grandi quantità, i contatti e le possibilità disattese per distribuirlo, ma anche la costanza con cui Robin segue le regole d’alimentazione di una qualsiasi donna in fase di allattamento, determinano un’immagine della maternità che si forma, oltre le necessità immediate della famiglia nucleare.

L’istinto, nella costrizione asettica dello sguardo, produce due madri. La prima che sperimenta il vuoto come conseguenza terribile della perdita, la seconda mentre recupera lo spazio della maternità attraverso la relazione reiterata e produttiva con i propri fluidi corporei.

La boccetta in bilico sul tavolo, mentre Robin esercita quel gioco probabilistico per vedere se cade o meno, viene a un certo punto richiamata confidenzialmente dalla donna con un dito, come si farebbe con un bimbo un po’ ribelle. La sequenza non scandisce semplicemente l’abbandono alla monotonia del tempo, ma stabilisce nello spazio domestico una relazione viva e famigliare con quel latte.
Un moto fisico che Robin dimostrerà quando riuscirà finalmente a donarlo.

Il cinema di Kolk occupa allora un interessante luogo di transito tra lo sguardo scientifico e il senso di irrealtà che può emergere dalla reazione degli individui con l’organizzazione dell’esperienza collettiva.

Follia, eccesso e ostinazione patologica, se davvero presenti, sono assegnati alle facoltà interpretative dello spettatore.

Quando Robin sembra vicina all’obiettivo, sarà proprio la sua ostinata fiducia nella prassi a portarlo a compimento. Gli sguardi intrecciati delle due donne, la prima con il carico di latte trasportato in macchina, la seconda sulla soglia di una villetta, contrappongono due sentimenti che includono moltissime cose; tra tutte, la sorpresa per un evento che squarcia l’inerzia del reale percepito.

[Foto dell’articolo di Emo Weemhoff – Lemming Film, concessa da ufficio stampa Alibi Communications]

Melk di Stefanie Kolk (Paesi Bassi, 2023 – 96 min)
Sceneggiatura: Stefanie Kolk, Nena van Driel
Interpreti: Frieda Barnhard, Aleksej Ovsiannikov, Ruth Sahertian, Jules Elting, Murat Toker, Arnoud Bos. Zineb Fallouk, Wimie Wilhelm
fotografia: Emo Weemhoff
montaggio: Maarten Ernest

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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