Love song contiene in un guscio l’ultimo film di Alex Garland. Il brano scritto da Lesley Duncan, pubblicato prima dall’artista inglese e successivamente da Elton John nel suo Tumbleweed Connection, apre e chiude Men con le versioni citate. Ricostruisce quindi il dialogo tra le due interpretazioni, dove l’amore diventa offerta sull’altare della libertà e non viceversa.
Eppure, per seguire l’invito a guardare con occhi nuovi la realtà, senza ostacoli sociali e ricatti affettivi, Harper deve evadere da quella prigione in cui lo sguardo maschile l’ha confinata.
Dopo il suicidio del marito, inscritto nelle dinamiche della violenza e del senso di colpa, si ritira nella campagna inglese, in un luogo che condivide l’astrazione interiore con altri spazi sospesi tra coscienza e realtà, nel cinema britannico degli anni settanta. L’Australiano di Jerzy Skolimowski, Images, la produzione Hemdale di Robert Altman, Paura Nella Notte di Jimmy Sangster, sono coinvolti nella possibilità combinatoria dei riferimenti, come esempi dove il rispecchiamento genera l’immagine inconoscibile nascosta dalle stratificazioni dell’io e allo stesso tempo innesca la strenua difesa dello spazio identitario femminile, nel recinto domestico della casa, contro le minacce di agenti esterni, presenze aliene, forze distruttive che cercano di penetrarne la privata inviolabilità.
Garland utilizza queste suggestioni servendosi solo marginalmente del naturalismo astratto dei modelli citati, con un cinema già immerso, sin dalle prime immagini, nella distorsione digitale della psiche. Una virtualità tipica che anche in territorio non fantascientifico, mostra le caratteristiche di una natura già tecnologizzata e manipolata dalla supremazia visuale .
Il pugno, violentissimo, che James sferra in pieno volto, spaccando il naso ad Harper e scaraventandola a terra, è l’innesco di una brutalità predatoria che viene immediatamente spostata dal piano fisico del corpo a corpo attoriale, nel perimetro dell’elaborazione di un lutto, le cui coordinate per Garland sono rappresentabili solo sul piano simbolico.
Il lutto è nell’apparenza esibita del suicidio, come risposta ad una separazione non voluta, ma soprattutto nel dissidio tra espiazione e liberazione, che Harper sperimenta con la necessità di liberarsi dall’obbligo della prima.
I mostri maschili che la minacciano in questo eden rurale separato dal mondo dove non è chiaro se sia permesso o meno coglier mele, assumono i tratti distorti di un’ossessione, quella del controllo assoluto del corpo femminile, come interpretazione della vita relazionale attraverso l’abuso. Ecco che i fantasmi di un paese che non esiste, hanno tutti il volto di Rory Kinnear, straordinario interprete Shakespeariano che incarna le varianti di una mascolinità tossica, di volta in volta declinate con le qualità della malattia mentale, l’ipocrisia paternalista dell’apparato ecclesiastico, l’ineluttabilità del mito come escatologia già ideologicamente orientata.
Non è un caso che all’interno di una lunga sequenza chiave, il sermone del vicario della chiesa locale venga sostituito da Leda e il cigno di W.B. Yeats, testo frequentatissimo nelle riletture del mito da una prospettiva femminista. L’apologia dello stupro avvallata dalla lettura ideologica della narrazione mitologica proposta da Yeats, nasconde dietro la genesi stessa della civiltà occidentale, prima greca poi cristiana, l’atto di sopraffazione violenta sul corpo della donna come metafora fondativa di un’intera collettività. Garland applica in modo mimetico e sin troppo chiaro la decostruzione del testo poetico, trasformando il cigno in un mostro dalle braccia squarciate, la cui foggia sembra quella di una bizzarra escrescenza fallica. L’atto di violenza sessuale viene respinto con un calcio deciso di Harper. Da qui, la partenogenesi maschile introflessa, genera se stessa con la sequenza di una matrioska mostruosa, fino a ridefinire il corpo del marito come genoma di tutte le maschere assunte da Rory Kinnear. Non c’è più spazio per il mostruoso femminile di Jude Ellison Sady Doyle, quell’interstizio di libertà selvaggia e fuori controllo viene traslato, parto incluso, nella metamorfosi della violenza, genesi ripetuta all’infinito del simulacro patriarcale.
Nastro di Möbius oppure architettura Escheriana, l’esperienza di Harper sembra confinata nell’area chiusa della vita interiore, poco importa se promana da una dimensione onirica o da un lungo processo di autoanalisi.
Rispetto ad una sequenza simile nel bellissimo Gozu di Miike Takashi, Garland non sembra interessato ad elaborare il doloroso processo di una trasformazione identitaria, al contrario confina tutto nell’ambito psichico, utilizzando la rappresentazione del corpo come un dispositivo metaforico sconnesso dall’esperienza, soprattutto cinematografica.
Il meccanismo si inceppa, come in Ex Machina, aggregando un orpello teorico di straordinaria pesantezza, una continua nota a margine che non si libera dai propri mostri, perché ne ha bisogno per caricare di significato la possibilità dell’evento.
Basta pensare alla dialettica elementare e soffocante tra le radici pagane di una terra e lo schiacciante predominio della cristianità, espressa nelle sue caratteristiche monumentali. Sheela na Gig, statua cultuale con una vulva aperta verso la rifondazione del mondo, esplode lentamente come rimosso culturale e identitario, sostituendo la chiesa di Dio padre con quella di una madre ermetica. Un misticismo per le masse che è il problema di molto “folk-horror”, ma che qui viene appiccicato con una supponente consapevolezza che non spaventa, non sovverte, non cambia il nostro modo di percepire la realtà, semplicemente perché non muta la cornice narrativa preminente nella rifondazione del mito stesso; l’utilizzo falsificante della metafora. Non c’è bisogno di scomodare Margaret Atwood e uno straordinario testo ibrido come “Il canto di Penelope” per suggerire a Garland che il punto è sbarazzarsi dell’opacità del mito.
E sono molti gli esempi che potremmo fare, divertendoci a smontare questo pasticcio post-moderno a partire dall’esibizione delle sollecitazioni in gioco. Il film sigilla irrimediabilmente alcuni dei suoi “misteri” nel tunnel delle sillabazioni vocali rilanciate dall’eco prodotto da Harper, polifonia primitiva che diventa leitmotiv per sottolineare, pesantemente, il percorso di una psiche frantumata. Da qui Garland dissemina il suo dispositivo di continui rimandi, dal sacro della Missa Sillabica di Arvo Part, al canto silenziato delle sirene nel poema di Samuel Daniel, voci incorporate senza alcuna possibilità di reazione che non sia quella di un costrutto testuale di intollerabile schematismo.
La separazione dall’edificio patriarcale non riesce a ferirci e a consentirci, donne e uomini, di riconoscersi all’interno di uno spazio ove sia possibile superare l’identificazione biologica, come metro del reale. Anche se l’intenzione è quella, nei continui slittamenti segnici che Garland mette in campo, c’è un distacco dall’esperienza che ripropone la riscrittura del mito come un trucco, un riflesso dell’esperienza ipertrofica di apprendimento virtuale con i grandi database di massa.
Men sembra un film concepito da un’intelligenza artificiale, da un algoritmo istruito per combinare quote di pensiero filosofico adatte alla costruzione di un percorso, senza lasciar spazio all’esperienza emotiva.
Non spaventa, non lavora sottopelle, non trapassa la cornea. Si apre, paradossalmente, mentre chiude con la voce di Elton John e una nuova, possibile canzone d’amore ci mostra per un attimo, nello scambio di sguardi tra Harper e Riley, il film che Garland non ha girato: Have your eyes really seen?
[Le foto dell’articolo sono fornite da Studio Sottocorno ufficio stampa]
Men di Alex Garland (Gb – 2022)
Interpreti: Jessie Buckley, Rory Kinnear, Paapa Essiedu, Gayle Rankin, Sarah Twomey, Zak Rothera-Oxley , Sonoya Mizuno
Sceneggiatura: Alex Garland
Fotografia: Rob Hardy
Montaggio: Jake Roberts