In un momento imprecisato del XXI secolo, nel sottosuolo di una metropoli avvolta da una ragnatela di sopraelevate e grattacieli, macchine e aerei che entrano nelle occhiaie vuote di palazzi spettrali, un popolo di schiavi senza volto, marionette mosse da fili invisibili, lavora agli ingranaggi di un’immensa macchina che sbuffa vapore e non conosce sosta.
Un orologio segna la fine del turno, l’ascensore vomita nelle viscere della terra nuovi manipoli di automi che si avviano al lavoro grigi e compatti, i tentacoli della città ingoiano gli altri, fino al prossimo turno. In superficie, dall’alto di un grattacielo con vetrate a 360° sulla città, il potente Frederson (Gustav Fröhlich) segue l’andamento in Borsa delle sue azioni.
Fuori di là, la gioventù dorata della classe padrona si diletta en plein air tra gare sportive e giardini in fiore, damigelle vezzose e giochi d’acqua. Un brioso maestro di cerimonie guida le danze. Il giovane Freder (Alfred Abel), fortunato erede di tanto padre, è improvvisamente folgorato dall’apparizione di Maria (Brigitte Helm), celestiale fanciulla spuntata chissà come all’ingresso monumentale del palazzo paterno, attorniata dai figli laceri degli operai del sottosuolo.
Nel seguirla come ipnotizzato, Freder scoprirà lo scenario di sopraffazione e violenza che brulica sotto i tombini della città.
Allucinato, in preda ad un autentico delirio della visione, in una memorabile scena che sembra un omaggio a Cabiria, vedrà la grande macchina industriale trasformarsi in un orrendo Moloch che ingoia gli uomini.
La vista di quel mondo fino ad allora sconosciuto lo precipiterà in un incubo da cui lo salverà solo l’amore di Maria.
Ciò che accade nel complesso intreccio che porta al finale spettacolare, in un’accelerazione vorticosa di eventi che culmina nella catarsi liberatoria, fonde stilemi della fantascienza con visioni apocalittiche di matrice espressionista, prospettive di rigenerazione sociale di stampo marxista e utopie messianiche coltivate da Thea von Harbou, moglie di Lang fino al divorzio che precedette l’esilio volontario del regista in America nel ’33, in fuga da Hitler e dalle sirene del Terzo Reich (vedi il serrato corteggiamento di Goebbels, che lo voleva a dirigere gli studi cinematografici del Reich) .
Autrice del romanzo da cui fu tratto il film e co-sceneggiatrice con il marito, convinta sostenitrice del Terzo Reich e fautrice delle aberranti teorie che portavano i nomi illustri di Spengler, Chamberlain e Rosenberg, alla von Harbou appartiene la parte debole del film, una storia da romanzo d’appendice che non avrebbe lasciato il segno se non fosse intervenuto il genio visionario di Fritz Lang a renderla immortale.
Nel felice incontro avvenuto in Germania nei primi decenni del secolo scorso fra cinema e avanguardia espressionista, Metropolis (1927) è infatti “ricapitolazione e sintesi di tutte le esperienze fin lì compiute – e può essere considerato come limite estremo del campo in questione”. (L. Quaresima, Il cinema espressionista come “angewandte Kunst”, 1997).
La qualificazione stilistica data al cinema dalla simbiosi fertile con il linguaggio del teatro e delle arti visive, oltre che dalla grande letteratura mitteleuropea di quegli anni, fu la conquista di un’epoca in cui la Germania apparve come crogiuolo di tutte le sperimentazioni, prima di diventare quello che Karl Kraus a ragione definì “laboratorio sperimentale della fine del mondo”.
Figlio di quella cultura dell’Europa centrale che, nel bene e nel male, ha fondato la civiltà dei tempi in cui viviamo, Lang elaborò immagini nate nella Repubblica di Weimar guardando la skyline del Nuovo Mondo.
Era il 1924 e arrivava a New York per la prima americana de I Nibelunghi : “Io ed Erich fummo considerati i nemici stranieri, e per qualche strana ragione non potemmo scendere a New York il giorno in cui la nave arrivò al porto, ma dovemmo attendere il giorno dopo per sbarcare. Ricordo, quella sera, di aver osservato dalla nave le principali strade di New York illuminate a giorno dalle migliaia di insegne luminose. Era uno spettacolo del tutto nuovo ed insolito ai miei occhi, e cercai di immaginarmi quest’enorme città, piena di grattacieli, proiettata nel futuro. E fu cosi che cominciai a pensare a Metropolis.”
Diviso in “Prologo”, “Intermezzo” e “Finale”, Metropolis ebbe la stessa vita lunga e movimentata del suo autore.
Nato come kolossal che richiese diciotto mesi di lavorazione, oltre cinque milioni di marchi, migliaia di comparse e un eccezionale staff di collaboratori, come Karl Freund alla fotografia, Gottfried Huppertz per la colonna sonora che riecheggia musiche di Wagner, Strauss e Berlioz, Eugen Schüfftan inventore di arditi effetti speciali che fecero scuola, Metropolis raccolse più dissensi che consensi alla prima uscita, nel 1927.
L’apprezzamento dimostrato da Goebbels non lo salvò da tagli che, a più riprese, ne alterarono forma e contenuto, almeno fino al 2008, quando dagli archivi del museo di Buenos Aires riemersero scene andate perdute durante la seconda Guerra Mondiale.
La Fondazione tedesca Friedrich Wilhelm Murnau le integrò al film in una versione restaurata proiettata a Berlino nel 2010. Una versione di 148 minuti, quasi integrale, la più completa esistente al momento, nel 2011 è stata distribuita da Medusa in DVD e Blu-Ray, con la partitura originale di Gottfried Huppertz.
Dichiarato patrimonio mondiale dell’umanità, il film torna oggi sul grande schermo a due anni da Metropolis – Il capolavoro ritrovato, spettacolare mostra che la Deutsche Kinemathek di Berlino, integrata con i materiali della Cinémathèque Française di Parigi, allestì nel 2012 a Torino, al Museo del Cinema, con materiali di scena, disegni preparatori, sceneggiatura, partitura, bozzetti dei costumi, disegni degli effetti speciali, progetti architettonici, fotografie, macchine da presa, spartiti musicali e quant’altro.
Sintesi di ricerche compiute in più ambiti (teatro, musica, letteratura, architettura), opera che indaga i meccanismi del potere elaborando in immagini un’ allegoria sconvolgente sul destino dell’uomo, Metropolis è opera così eclettica nelle scelte drammaturgiche e visive da diventare scuola di esperienze future, in campo cinematografico e non.
E se, come sosteneva Elias Canetti, “le diverse arti devono vivere insieme in rapporti estremamente casti“, Metropolis ne è dimostrazione evidente. Dotata infatti di uno statuto autonomo, è un classico che, mentre definisce il suo tempo, lo trascende, intessuto con i fili di tante tradizioni a comporre un unico scenario, di fronte al quale si resta ammirati e smarriti.
Cinema che si evolve in pittura, trasporta nei territori dell’incubo e dell’angoscia la percezione del reale, ne destabilizza i connotati e li rende irriconoscibili all’occhio abituato ad inconsistenti decalcomanie della realtà, più delle visioni futuriste che rimandano alla Città Nuova di Sant’Elia e meglio del riecheggiamento delle geniali progettualità che scandirono la vita del Bauhaus, imprime nella memoria visiva di chiunque quelle folle riprese come animali policefali, marionette mute e senza volto che si muovono a scatti.
Immagine permanente nella sua verità che va oltre il tempo, esemplare passaggio del cinema da Vision a Visionaire, nell’accezione formulata da Rolf Merkel (Der Film, n.6, 1923), quelle folle compongono uno scenario drammaticamente profetico nella sua inalterata attualità.
“The mediator between head and hands must be heart!” è la scritta in sovraimpressione che chiude il film.
Nel ’59 Lang, ricordandola, disse: “Oggi non si può più dire che il cuore sia il mediatore fra il braccio e la mente, perché si tratta d’un problema puramente economico “.