Il dubbio di Papa Melville, quello che lo spingeva ad uscire di “scena” per entrare nel “mondo” viene condiviso da Barry Huggins (John Turturro), quando sul set del nuovo film di Margherita (Margherita Buy) esplode con dolente violenza. Dopo 105 film e l’ansia di liberarsi dal peso delle battute, la perdita della memoria non è semplicemente una malattia, ma l’unica possibilità per tornare nella realtà. L’oblio diventa ricerca di un luogo dove potersi finalmente perdere, anche nel movimento di un ritorno verso casa, i cui passi per arrivarci non sono mai quelli obbligati di sempre.
E in una delle sequenze più dure del nuovo film di Nanni Moretti, dove Margherita sfascia volontariamente la macchina della madre dirigendola più volte contro un muro, quello spazio sospeso tra scomparsa e trasformazione che è la dimenticanza, si concretizza nella ripetizione dello schianto, rifiuto e allo stesso tempo attraversamento del vuoto. Ma anche nell’indecisione tra l’essere dentro le cose e la difficile comprensione della realtà che Margherita esprime con l’operatore troppo vicino alle immagini degli scontri, con i giornalisti e la retorica degli incontri stampa, e ancora con i suoi attori, ai quali ripete costantemente di non uscire completamente da se stessi, per occupare uno spazio liminale, accanto al personaggio.
“Mia Madre“, ancora più di “Habemus Papam”, punta allo svuotamento dell’immagine invece che all’accumulo: la città notturna e priva di vita, l’errare di Margherita, sola in mezzo al set oppure mentre percorre a ritroso la fila davanti al Capranichetta, individua una dimensione potenziale e di transito, tanto che i sogni e la memoria non hanno più la marcatura di una surrealtà evidente, ma al contrario abitano gli elementi residuali della realtà. La casa allagata, i libri disposti sulla scrivania e illuminati dalla luce delle finestre, la madre già morta ma ancora viva negli occhi dei suoi ex studenti, una compenetrazione tra soglie che viene ridefinita ogni volta, da un punto di vista interno ed esterno rispetto a quello dello stesso Nanni Moretti, il cui sdoppiamento possibile compiuto attraverso i personaggi di Margherita e del fratello Giovanni è di volta in volta immagine in abisso che agisce sulla nostra stessa memoria del suo cinema. Riflesso, abbandono della propria immagine o di quella sedimentata in uno schema, la cui relazione è adesso nell’interstizio tra margine e centro, come se il vetro sfondato attraverso il quale Don Giulio osserva la sorella mentre si allontana, fosse un’apertura tra i due punti di vista.
La resistenza all’oblio segnata sui foglietti dove Huggins appunta le battute, le indicazioni di regia e altre osservazioni per resistere all’evanescenza della memoria, risuona con quella della madre di Margherita che riscrive il calendario di somministrazione dei farmaci, ma allo stesso tempo si allenta nelle passeggiate notturne sospese tra esperienza interiore e lo sguardo esterno dei famigliari della donna, un contrasto che rappresenta l’ingresso e l’uscita più dolorosa dall’occhio altrui, ma anche la contemplazione di una soggettiva estrema, come quella al confine tra sogno e verità interiore, osservata con profonda dolcezza dai margini (quelli di un letto d’ospedale, di un set, del proprio essere nelle cose…)
Nella tensione verso il silenzio indicataci dall’estrema sintesi sonora di Arvo Pärt e in quella legata alle impressioni sensoriali della musica di Ólafur Arnalds, il vibrafono di Baby’s Coming Back To Me sembra accogliere lo stato di passaggio che si percepisce nelle immagini di “Mia Madre”, sono il suono e le liriche di una rêverie che promana dalla morte alla vita, o viceversa, non importa stabilire quale sia il sogno e dove emerga il ricordo. In quel bellissimo controcampo sfalsato nel tempo della memoria che mette di fronte gli occhi di Margherita Buy con il pensiero della madre rivolto al domani, c’è la possibilità terrifica e dolcissima di ciò che saremo stati, nel futuro anteriore al ricordo.