Home festivalcinema Berlinale-66 Midnight Special di Jeff Nichols – Berlinale 66: Concorso

Midnight Special di Jeff Nichols – Berlinale 66: Concorso

Prima ancora di essere un brano dei Creedence Clearwater Revival, Midnight Special si riferiva probabilmente al Southern Pacific Golden Gate Limited, un treno che Leadbelly sentiva tutte le notti dalle mura della prigione texana dove era rinchiuso, la Sugar Land. Dopo l’uscita dal carcere il maestro del delta blues comporrà il brano che sarà reinterpretato da moltissimi musicisti oltre ai Creedence, documentazione di una fuga verso la libertà. Per Jeff Nichols “Midnight Special” diventa qualcosa di più di una citazione o di un aggancio nostalgico, perché innesca una serie di libere associazioni che come accade sovente nel suo cinema, servono a svuotare e riempire diversamente il potenziale dei segni.

C’è allora molto Spielberg nel suo nuovo film, da Sugarland Express ad Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, fino a Twilight Zone, con quel viaggio verso il buio di Dan Aycroyd e Albert Brooks mentre la radio manda appunto “Midnight Special” nella versione dei Creedence; ma c’è anche John Carpenter, non solo Starman come si poteva già intuire in modo esplicito dal lancio del film, ma anche Fog, con gli oggetti che prendono vita, il confine tra luce ed oscurità, lo strato di un mondo che, Dickianamente, ne nasconde un altro sotto la superficie.

Si fa strada allora una lettura stratificatissima che ancora una volta mette al centro la famiglia, il trauma della separazione, il rapporto padre-figlio, spingendo ai margini l’elemento science fiction, slittandone il senso e ritardando la tensione il più possibile, mentre si apre il percorso dolente di un vero e proprio blues che si ferma sui volti di Michael Shannon e Kristen Dunst cogliendoli al centro di un mondo spinto sull’orlo di un’apocalisse prima individuale poi collettiva. La corsa disperata dei personaggi raccontati da Leadbelly nella speranza che il treno notturno porti un segno di luce, si riverbera in quella linea messianica che attraversa tutto il film e che Nichols ci mostra attraverso due tracce di polarità opposta; le speranze della setta in odor di secessionismo guidata da un inquietante Sam Shepard e dall’altra parte il percorso di agnizione che il padre del piccolo Alton (Michael Shannon) deve affrontare mentre lo conduce dalla madre (la Dunst).

Della fuga in corso non conosciamo le motivazioni, Nichols la presenta in medias res, accentuando solamente la diversità del bimbo (Jaeden Lieberher) rispetto a tutti gli altri e contrapponendo la forza di un legame a tutte le forze contrarie conosciute, incluse quelle delle istituzioni. È la religione organizzata e lo stato che sembrano minacciare un assetto che si rivelerà fondato su basi altre rispetto al concetto di diritto naturale.

Anche quando i rapporti di forza diventano più chiari, i mondi della fantascienza emergono come capacità di guardare attraverso, spaccature della percezione, cicatrici che si aprono non così diverse dall’elaborazione di un lutto, mentre la violenza dei federali potrebbe essere una qualsiasi brutale intrusione del potere nella vita degli immigrati costretti a vivere in un confine di nessuno.

Il cinema del regista americano allora non é semplicemente identificabile come un’applicazione di maniera di quel gioco combinatorio tra generi; nonostante si riveli attentissimo in termini filologici cercando di lavorare sulle luci, sui riflessi, sui colori e sulle ottiche di un cinema che si faceva più di trenta anni fa, Nichols non è J.J. Abrams e non cade nei confini angusti dell’omaggio. Il suo è un cinema sempre più vivo e sincero nell’avvicinarsi alle ragioni di un trauma e se c’è fantascienza, questa è nella vertigine del ricordo che interroga la realtà.

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