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‘Moloch’ – una conversazione con Stefano P. Testa. Collezionismo di repertorio: tra manipolazione e sovrapposizione della materia

Stefano P. Testa filmmaker, fotografo, operatore, montatore bergamasco, autore di film  e di videoclip non convenzionali,  lavora e si muove come un artigiano, cercando, scovando, tagliando e cucendo frammenti di repertorio provenienti dal passato.

La Storia diviene ‘storia’ perché ricostruita senza quel rigore filologico e didattico, anzi riportando il passato a una funzione di ‘proiezione’, re-inventato dal cut-and-paste dei nastri magnetici e delle pellicole 8 mm provenienti dagli archivi amatoriali con i quali il regista ama lavorare.

Sempre nella direzione del recupero e riutilizzo, si comprende la sintonia esistente tra l’approccio di Testa e quello che porta avanti da decenni la Lab 80 società cooperativa nata a Bergamo nel ’76 con la quale Testa collabora, impegnata nella distribuzione di preziose pellicole restaurate, proiezioni e produzioni italiane di alto livello in ambito documentaristico/fiction/sperimentale.

Stefano P. Testa

Dagli ottimi lavori di Luca Ferri (MAGOG – o epifania del barbagianni, Ecce Ubu, Abacuc, Colombi) al bel lungometraggio d’esordio di Stefano P. Testa ‘Moloch’, la Lab 80 continua a produrre cinema italiano oltre la commedia con coraggio e consapevolezza.

La stessa che impiega Stefano P. Testa in ‘Moloch’, found footage prezioso e intenso, per quei frammenti di vita estrapolati dalle videocassette trovate in una discarica della provincia di Bergamo, che riescono a comunicare molto: dalla storia di Roberto, sessantenne fuori dalle righe, fatta di esperienze e delusioni comuni, sino all’emergere di riflessioni sull’esistenza, la famiglia, la religione.

Il Moloch! Diventa un Moloch Tutto viene mangiato.
Mi sembra di pensare a quei film muti in bianco e nero tedeschi,
tipo Metropolis e quelle cose lì. Niente è contro il sistema.
Il sistema fa in modo che ogni cosa, anche contro se stesso, renda.
Renda

Roberto

Moloch, il trailer ufficiale

‘Moloch’ come divinità mostruosa ed esigente che richiede sacrifici proviene dalla visione che Allen Ginsberg trasferì nel suo poema epico ‘Howl’, nel quale erano decantati i pericoli del capitalismo e del conformismo negli Stati Uniti della beat generation. Perché hai avuto l’esigenza di riallacciarti a questa visione?

In tutta onestà nelle intenzioni iniziali di scrittura del film non era presente alcun Moloch. L’idea nasce da una conversazione con Roberto, grande appassionato di letteratura beat, quando un giorno mi parlò di questa entità indecifrabile e spaventosa.
La ribellione al sistema, l’anticonformismo, la negazione di pre-determinati valori sociali e il rifiuto della morale sono scelte di vita che possono condurre a un profondo senso di disillusione e frustrazione, quando si pensa alla propria esistenza come ad un piccolo ingranaggio nella mastodontica macchina divoratrice Moloch. Essa esige sacrifici e divora sé stessa per continuare ad esistere. Per usare le parole di Roberto: “Niente è contro il sistema. Il sistema fa in modo che ogni cosa, anche contro se stesso, renda.”
Il Moloch produce e consuma, non si può sfuggire a questo processo.
Forse la decisione di affrontare questo tema nasce dall’esigenza, mia e di Roberto, di ricercare una propria identità all’interno del Moloch.

Moloch ► Macchina Lava Pavimenti

E’ davvero interessante l’approccio che hai con il cinema perché unisce la ricerca documentaristica legata alla manipolazione e sovrapposizione della materia con le immagini di repertorio, sperimentando molto. Da dove proviene questo tuo interesse e come bilanci documentario e sperimentazione?

Il mio primo approccio al mondo dell’audiovisivo è avvenuto attraverso la videoarte, durante gli studi in Accademia di Belle Arti di Brera. Potrei dire che Moloch unisce la voglia di raccontare una storia comune attraverso un linguaggio filmico e un’estetica alternativi a quelli del documentario classico, ma più affini a quelli del cinema found footage sperimentale. La manipolazione dell’immagine analogica è un processo fondamentale in Moloch; le distorsioni audiovisive del supporto VHS degradato dal tempo agiscono da significante sul piano linguistico, sono in grado di veicolare contenuti ed emozioni esattamente come le parole del protagonista.

Due visioni e generi rispetto al Cinema che soprattutto in Italia sono stati e sono tutt’ora in fermento, anche se in un ambito ancora di nicchia. Come ti rapporti con il panorama nazionale?

Sono due generi che permettono una grande libertà d’espressione, anche in presenza di numerosi limiti di tipo produttivo. In questa nicchia di cinematografia indipendente, dove la fantasia sopperisce alla mancanza di soldi e strumenti, si possono trovare storie meravigliose proprio perché la voglia di raccontarle nasce da un bisogno viscerale e non commerciale. Purtroppo il pubblico di riferimento è molto ristretto ed è difficile trovare spazio per questo genere di cinema.

Chicken Bushido – Persiamia, video ufficiale. Dir: Stefano P. Testa

L’idea di cinema in ‘Moloch’ emerge prepotentemente come frutto di studio e casualità, tant’è, come hai dichiarato, non avevi idea di che cosa sarebbe nato dalle conversazioni registrate con lo zio Roberto. Quali sono stati gli stimoli e le intuizioni che ti hanno guidato nel mettere insieme tutti i pezzi?

Iniziai a registrare le conversazioni con Roberto per archivio personale, senza l’idea di farne un film. Poi un giorno trovai in discarica un sacco contenente un gran numero di VHS amatoriali, filmini di famiglia perlopiù. Li portai a casa e iniziai a guardarli spinto da una certa curiosità voyeuristica. Vi trovai matrimoni, viaggi di nozze, concerti, feste, battesimi, scene di vita famigliare e di comunità parrocchiale. Mi accorsi presto che il contenuto di quelle videocassette dialogava perfettamente con i racconti di Roberto: a volte per similitudine e a volte per opposizione. Individuate alcune tematiche principali decisi di accostare in montaggio le storie di Roberto alle immagini di questi sconosciuti cineamatori.

L’anticonformismo di Roberto si scontra con le abitudini e le consuetudini della vita di provincia bergamasca. Ma tutto ribolle nel grande calderone che è il Moloch.

“‘Moloch’ funziona come punto di partenza per numerosi quesiti che ti poni: ‘cos’è che spinge un individuo a cercare strade alternative di pensiero? Dove porta l’essere costantemente contro il sistema e le convenzioni sociali? Fino a che punto si possono rinnegare le proprie origini senza sentirsi falsi e artefatti? La continua ricerca di nuovi orizzonti ha un prezzo?’. Sei riuscito a rispondere ad alcuni di questi?

Assolutamente no! Sono più confuso di prima e ho anche un po’ paura.

In che senso, “paura”?

Io ho trent’anni e Roberto ne ha sessanta. Le sue esperienze di vita, la curiosità, la saggezza, la continua ricerca di nuovi stimoli non lo mettono al riparo da una condizione umana perennemente precaria. Sarà così anche per me? Questo un po’ mi fa paura.

Spesso il found footage è utilizzato come un dispositivo giocattolo con il quale recuperare alcuni ‘gingilli vintage’, ma nel caso dei tuoi lavori l’orientamento è differente. Non penso solo a ‘Moloch’ ma anche al videoclip di ‘Polaroid’ realizzato per Ilaria Pastore o al video mashup “Verbal-Coronado”, realizzato per ‘Cinescatti’, il progetto di Lab 80 per il recupero e la valorizzazione degli archivi di famiglia, nei quali le immagini trasudano nuova vita e raccontano una storia diversa da quella originaria. Come ti sei avvicinato a questa tecnica?

Grazie al progetto Cinescatti di Laboratorio 80 e Bergamo Film Meeting ebbi l’opportunità di digitalizzare molti filmini amatoriali: supporti 8mm, super8 e 9½ mm girati tra gli anni ’30 e gli ’80. Da quell’esperienza scoprii l’esistenza di un genere cinematografico chiamato found footage e decisi di sperimentare in quella direzione. Le possibilità di rielaborazione di queste immagini sono pressoché infinite: come dici tu stessa ci si può limitare all’estetica vintage adottandola come puro e semplice divertissement; ma se si va oltre l’apparenza di abiti improbabili, pettinature curiose e colori sbiaditi, è possibile giocare con il tempo, stravolgerne il significato e creare anacronismi.

Ilaria Pastore – Polaroid – Dir: Stefano P. Testa

Puoi raccontarci uno di questi anacronismi, uno dei momenti a cui sei più legato e che ti ha consentito di spingerti oltre la superficie dell’immagine?

In realtà tutto il film può essere considerato un unico grande anacronismo. Le conversazioni con Roberto infatti hanno lo stesso disturbo analogico dei vecchi nastri, quindi ipoteticamente collocabili nel medesimo momento storico; in realtà le riprese sono state fatte nel 2016, ma non c’è alcun elemento che possa ricondurre lo spettatore ai giorni nostri. Nei racconti di Roberto presente e passato si confondono, come a sottolineare quel senso di immobilità del tempo che si percepisce quando si attraversa la Provincia.

Come è iniziata la tua collaborazione con Lab 80 e cosa ti ha avvicinato a quella realtà?

Vendendo gelati al cinema all’aperto di Lab 80. Un lavoro bellissimo! Ogni sera hai la possibilità di guardare un film mangiando il gelato e sei pure retribuito. Scherzi a parte, tutto è iniziato con uno stage formativo, dove imparai le tecniche di ripresa e montaggio video. Da allora è iniziata una collaborazione molto stimolante.

L’effettistica astratta che applichi a certe immagini di repertorio sono una stratificazione interessante: corpo e materia si sovrappongono e aggiungono un livello ulteriore di senso, penso ad esempio alla clip  realizzata per “The Honolulu” e intitolata “Zazzà (Garage Tapes #1)”. Quello della manipolazione materiale e dell’osservazione dei corpi sembrano elementi ricorrenti. Da dove ti deriva questo interesse?

Sono affascinato dall’immagine filmica quando è materica. I graffi della pellicola, le bruciature, le corrosioni, ma anche le distorsioni analogiche, i glitch, gli errori di codifica. Sono elementi estetici che conferiscono all’immagine bidimensionale una dimensione corporea, rendendola viva e pulsante. I dettagli che si possono catturare con le videocamere di ultima generazione sono sorprendenti, tuttavia considero l’immagine corrosa dal tempo molto più stimolante e comunicativa. Le pellicole di piccolo formato e i nastri magnetici, rivisti e rielaborati oggi, a decenni di distanza, consentono di sviluppare riflessioni sul modo di rappresentare il reale. Lo sguardo sulla realtà è strettamente legato al tipo di supporto utilizzato per registrarla.
La rappresentazione del corpo umano riflette perfettamente questo concetto: le sembianze di un essere umano ripreso in pellicola bianco e nero nei primi del novecento sono estremamente diverse da quelle catturate da una videocamera a nastro magnetico negli anni ’80; soprattutto se messe a confronto con l’immagine iperrealistica alla quale siamo abituati oggi. Eppure si tratta della stessa identica forma. Trovo tutto questo molto affascinante.

The Honolulu – Zazza (Garage Tapes #1) – Dir: Stefano P. Testa

Quali saranno i tuoi prossimi progetti?

Attualmente sto scrivendo un documentario sulla storia di un giovane bandito bergamasco protagonista della cronaca locale e internazionale degli anni ottanta. Anche in questo progetto l’immagine d’archivio avrà un ruolo fondamentale nello sviluppo della storia.

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