domenica, Novembre 17, 2024

Monument di Jagoda Szelc: recensione

É un cinema che continua a disturbare quello della polacca Jagoda Szelc. A un anno di distanza da Tower. A Bright Day, debutto sulla lunga distanza che ha fatto incetta di premi, torna con un film che non si concede facilmente allo spettatore né cede all’alibi dell’esperimento concettuale, nonostante le apparenze. Monument è un’enigmatica esplorazione sulle capacità performative dei giovani attori usciti dalla Lodz film School, partner attivo per la realizzazione e la produzione. Le premesse laboratoriali assegnano a questo e ad altri progetti usciti dalla stessa fucina, un confine semantico costituito da una serie di ostacoli interpretativi e da un’equa ripartizione dei compiti attoriali da affidare a ciascun studente coinvolto.

Non può emergere un leader, tutto viene ridimensionato dall’esigenza di equilibrare un risultato collettivo. Un’indicazione “scolastica” che sulla carta fa venire in mente il cinema chiuso e afflitto da regole sistematiche di Von Trier / Leth  in “The 5 Obstructions” , ma la regista polacca accetta la sfida e apre il contenitore a molteplici stratificazioni, costruendo un difficile film di passaggio che radicalizza alcune intuizioni già elaborate nel suo precedente lavoro, in una nuova esperienza di cinema libero.

La scena è l’hotel di una grande catena, dove un gruppo di giovani promesse del settore alberghiero si recano per formarsi nei rispettivi settori, dalla cucina sino alla gestione di una spa. 
Il breve viaggio in pulmann si conclude con la scomparsa misteriosa di un ragazzo del gruppo e le rigide istruzioni della responsabile sul lavoro da svolgere.  I toni e le indicazioni sono quelli del mercato contemporaneo del lavoro, alimentato da una forza distruttiva e disumana. Lo stage, occasione per mettersi alla prova, perpetra lo stesso modello di partenza e diffonde il virus dell’umiliazione tra i partecipanti, come sistema di sopravvivenza. 

Quella che potrebbe sembrare una riflessione sul potere, diventa luogo di trasformazione  in una scomposizione di alcuni elementi Grotowskiani legati allo studio fonetico, posturale, mnestico, dove il corpo polarizza le energie, per restituirle nella dinamica rituale della scoperta di Se. Terreno creativo non è più il teatro, quanto lo spazio definito dall’umano nel suo contatto incompromissorio con gli elementi preformali che ne minacciano lo statuto. 

Gli elementi costitutivi della società istituzionale sui quali la Szelc aveva già riflettuto, vengono divelti da un intreccio di esperienze soggettive, tutte chiuse nella propria monade di riferimento, ma pronte ad emergere dal sottosuolo come forza oscura e creatrice. 

L’hotel nasconde un sottosuolo, la cui morfologia non esiste in quella dinamica verticale tipica del cinema horror, ma si spalanca dall’esperienza individuale dei giovani stagisti, come traccia situata sul confine tra abietto e quotidiano. 

Lo schema ellittico entro il quale la regista polacca chiude il film, con quel viaggio iniziale in Pulmann che diventa falso movimento, percorso mai stato ed infine incubo e visione mentale prodotte dall’unico sopravvissuto ad una strage imprevista, colloca “Monument” in quella terra di mezzo tra l’autorità della scrittura e la sua dissoluzione nella forza rituale dell’istante. 

Anche per questo la Szelc evita di ancorarsi alle insidie del cinema concettuale, laddove i concetti non emergono mai da una relazione logica tra immagine e parola, quanto dall’isolamento di questi elementi in una cornice empirica dove il gesto si carica di potenzialità distruttive e creative allo stesso tempo.

Se tutto fosse stato sognato dall’unico personaggio cancellato, occhio occulto, occultato e improvvisamente svelato in un’apparente assunzione di autorialità, niente potrebbe disinnescare la forza palindroma del monumento creato da Olaf Brzeski, già di per se opera allucinatoria, monolite emerso dallo stato di sogno come elemento solido, tangibile e costantemente soggetto ad una pulizia impossibile da parte degli stagisti dell’hotel, quasi fosse un organismo che vive di vita propria. 

Eppure quello stesso monumento può essere una tomba, un totem, l’axis mundi che penetra l’altro mondo e comunica con la superficie, nel rito di passaggio verso l’età adulta. Ma anche morte dell’innocenza, esaurirsi della collettività e del sogno unitario.

Chi sogna cosa e cosa sogna chi, proprio in quell’ellisse che avrebbe potuto condannare il film ad una chiusura esplicativa, è un interrogativo sollecitato continuamente e che trova risposte solo in tutto ciò che è oltre la necessità denotativa del logos.

La parola è costantemente scagliata contro una realtà muta, la interroga, cerca di scalfirla, di farsi improvvisamente pietra, come nell’esperienza quotidiana della ragazza che si dedica alle cure di una donna incredibilmente obesa, ricoperta dai fanghi di una spa dotata di attrezzature già vecchie. Le cure e la dedizione sembrano quelle destinate ad un malato terminale, corpo estremo e deforme, dea primigenia oppure ultimo degli scherzi giocati dalla natura, indifferente alle sollecitazioni narrative dell’operatrice, il cui monologo assume progressivamente il senso di un denudamento del proprio essere, fino all’annullamento di qualsiasi postura affabulatoria.

Scoperta del corpo e di tutte le energie che può dischiudere, esplose infine nell’esorcismo conclusivo, esperimento sulla vocalizzazione che in mano alla Szelc diventa esperienza immersiva di cinema aptico, come in Szamanka di Zulawski. Ancora una volta nel cinema della Szelc, il suono, come il lieve e ossessivo lamento della donna nella spa, condivide famigliarità ed estraneità, senza necessariamente trasformare la sua natura in un esperimento di sound design, né aderire a funzioni di tipo descrittivo.  Questo, emerge spesso dal corpo e fuoriesce come anelito al superamento della barriera tangibile. Si crea allora una seconda natura, scaturita dalla prima, vicina alla verità del performer e alla libertà dell’osservatore. 

Jagoda Szelc mantiene salda la squadra di “Tower….”, affidandosi alla fotografia livida di Przemyslaw Brynkiewicz, ai suoni e alla musica di Rafal Nowak e al montaggio di Anna Garncarczyk.
“Monument” è certamente un film di passaggio, termine che spesso viene utilizzato per riferirsi ad opere imperfette, sperimentali, involute, forse rispetto al desiderio di una forma narrativa inconsapevolmente ottocentesca. Di passaggio allora per altri motivi, legati allo sconfinamento tra forme e territori. Non importa cercare di collocarlo, tanto attraversa il cinema, le arti performative, il cinema d’arte, la spaccatura tra teatro e installazione. La sala potrebbe essere incredibilmente il suo luogo deputato, spazio di epifanie rituali sin dal primo attraversamento che separa con una tenda la biglietteria dalla platea. Non importa se lo si vedrà solo nel contenitore virtuale dei festival.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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