sabato, Novembre 23, 2024

Moonage Daydream di Brett Morgen: recensione

Il sogno ad occhi aperti visto dalla luna ha la consistenza fuggevole di quel picco di attività cerebrale che può manifestarsi prima di morire. Tutto scorre al pari di un'illusione della mente in "Moonage Daydream", a patto di lasciarsi andare al "come" dei frammenti e non al "cosa". La recensione del film di Brett Morgen, riflessione "visual" sull'opera bowiana.

Nella densa operazione ipermediale messa insieme da Brett Morgen a partire dall’archivio Bowiano, tra più di cento anni di Cinema su cui elabora una possibile riappropriazione con l’estetica del mash-up, emergono alcuni frammenti da Permutations, il primo film compiuto e completato da John Whitney nel 1968, come conseguenza delle sue ricerche informatiche, giunte ad un punto di sintesi, grazie alla collaborazione con IBM e alla console grafica del modello 2250, messa a punto da Jack Citron con l’interfaccia GRAF. Il tentativo di Permutations era quello di estendere la nozione di cinema espanso, attraverso la rielaborazione del gesto creativo operata da un algoritmo. Forme, modelli e colori processati da patterns specifici, verso la creazione di una nuova logica sintattica slegata dal linguaggio alfabetico. Secondo Whitney stesso, il parallelismo è con il contrappunto musicale e con la polifonia, dove quello che viene definito come “fenomeno poligrafico”, cerca un’analogia visuale con alcune architetture armoniche. Il lavoro di Whitney può essere considerato quello che più di altri anticipa la logica e l’estetica dei visuals, non solo in ambito strettamente CGI, ma anche per quanto riguarda la prassi più sensoriale del VJing, come combinazione tra media digitali e fisici, soprattutto nella capacità di processare informazioni e patterns grafici in tempo reale, secondo una filosofia di tipo squisitamente performativo, strettamente connessa all’interazione con il suono, i BPM e i loops.

Per quanto il montaggio combinatorio coordinato dallo stesso Morgen insieme al suo team, suggerisca di riferirsi al gesto decostruttivo lettrista o al gioco surrealista del cadavre exquis, filtrato dalla sbornia Burroughsiana di Bowie o dal rilancio di tutte queste suggestioni con il mazzo di carte ideato da Brian Eno insieme a Peter Schmidt, cercare affinità con il consueto, logoro riferimento al détournement dell’Internazionale Situazionista, significa sovrastimare il film di Morgen per le ragioni sbagliate e sottostimarlo senza individuare altri possibili percorsi, legati alle permutazioni dell’immagine contemporanea.

Il computer film di Whitney ci è sembrato un rizoma più stimolante e per certi versi più archeologicamente vicino alla logica del remix che Morgen ha deciso di affrontare, immergendosi nella produzione e riappropriazione di un patrimonio mediale interrelato, Unruly e senza più confini generici.

Al netto del battage promozionale voluto da Universal, sappiamo bene che non esistono immagini mai viste nella prassi degli accessi condivisi ai patrimoni della conoscenza, digitalizzati legalmente o meno, ma oggetti queer che risiedono a metà tra spazio effimero ed esperienza fisica, e che per loro stessa natura, sono rimodellabili secondo logiche di senso assegnate dalla comunità di riferimento.

Se quella del fan hardcore rimane irrimediabilmente delusa dalla presenza ridotta di materiale “vergine”, o peggio ancora da una cronologia filologica tradita, sarà bene chiarire che il film di Morgen si sbarazza dell’isteria cultuale per almeno due ragioni.

La prima è legata alla scelta del remix, pratica probabilmente vicina alla Bowie Estate attuale, sia in termini negativi che positivi. Il coinvolgimento di Tony Visconti per un vero e proprio lavoro di sound design sul patrimonio Bowiano, rispetto ai recenti e discutibili tentativi di rifare l’orlo ad alcuni album della stessa discografia, assolve una funzione immersiva tipica del post-cinema, che in questo caso sottrae la centralità identitaria della voce, per tendere verso un continuum strumentale. Questa riallocazione prospettica reagisce con la molteplicità transitiva degli ipermedia utilizzati da Morgen, rielaborati seguendo la manipolazione del frammento, dove al contrario, le connotazioni possibili sono offerte dalla voce deterritorializzata di David Bowie. Ogni cellula del discorso non viene modificata solo orizzontalmente, secondo una prassi che in prima istanza appare simile al cinema della discrepanza immaginato da Isidore Isou e che sintetizza due mondi per mutua interferenza, generandone un terzo, ma soprattutto all’interno di ogni tessera, contaminata dall’estetica del compositing, della fusione, della trasformazione di motivi transitori. Da una parte l’ipertrofia vertiginosa di frammenti tra arte, vita e gesto finzionale, come il segmento che ruota intorno ad una delle sequenze inventate da Jacopetti e Prosperi per Mondo Cane 2, dove Horst Sonnering, pittore tedesco vestito da minotauro, verga violenti grumi di colore su una tela, mentre il set demoniaco suggerisce l’immersione dell’atto creativo per eseguire al meglio una committenza legata all’edizione illustrata dell’Inferno di Dante. Dall’altra, l’annullamento di un’immagine nell’altra nei segmenti, per esempio, utilizzati originariamente per le retroproiezioni del Sound & Vision Tour, dove l’eccedenza di Louise Lecavalier, viene tagliata quasi integralmente, per favorire nuove interazioni e inediti campionamenti del materiale originale, sottoposto alla ri-mediazione tra schermi.

La seconda ragione è il deliberato tentativo di decontestualizzazione storica del materiale, attraverso le scelte equitemporali della voce narrante. Morgen introduce il film con una riflessione sulla nozione di tempo, secondo una prospettiva che potrebbe appartenere allo scrittore di fantascienza ateo Michael John Moorcock, come al matematico e mistico ortodosso Pavel Aleksandrovič Florenskij. Il tracciato è quello di una ricerca del Sé come cancellazione progressiva del significato nella relazione tra energia del soggetto e quella del cosmo. Opera mondo, quella immaginata da Morgen, ma nella modalità con cui questo viene filtrato attraverso la digitalizzazione dell’esperienza. Concepito come uno spettacolo per sale attrezzate IMAX, il film tende chiaramente verso la semantizzazione di una bolla immersiva dove aurale e visuale si scambiano continuamente posizione, nella dimensione shock dell’assalto. Lo abbiamo visto in una delle quattro sale italiane disposte per questo tipo di visione e ci è sembrata una strana macchina celibe, come tutte le tecnologie senza futuro del Cinema, eppure vive nel tentativo di mostrare l’altrove in uno spazio secluso, ad accesso popolare, un cortocircuito che attraversa tutte le creazioni Bowiane.

Eppure, nell’apparente linearità di una spiritualità mai riconciliata, la decontestualizzazione storica funziona proprio come disattivatore di alcune mitologie, anche semplicemente autoriali, collocando sullo sfondo l’eterno ripetersi del “decrepito cabaret” pop, come se fosse un segnale trasmesso da un emittente sempre e comunque altrove. Mentre tutto scorre al pari di un’illusione della mente difficilmente afferrabile per quantità e densità, a patto di lasciarsi andare al “come” dei frammenti e non al “cosa”, Bowie sfugge ai suoi stessi personaggi, non solo nella forma del romanziere, ma in una definizione di fragilità che depotenzia, fortunatamente, la tensione drammatica di qualsiasi ricostruzione documentale, quasi sempre specchio autoritario dell’occhio Storico in carica.

Le interviste già viste, quella nello studio di Dick Cavett, la coppia condotta da un intollerabile Russel Harty, la conversazione del 1983 con Susan Sarandon e una altrettanto intima con Mavis Nicholson trasmessa su Thames television nel febbraio del 1979, servono a Morgen per identificare una breccia emotiva nella narrazione, che pre-esiste qualitativamente nel frammento, come traccia che eccede l’autorità asfittica della ricostruzione cronologica.

Nel magma infernale scagliato con-tro lo spettatore, si fa strada una luce alternativa che rivela quell’interazione tra realtà e rappresentazione simulacrale come parte di un processo creativo attivato di volta in volta dall’attività percettiva dello spettatore. Questa definizione Bakhtiniana del punto di vista autoriale, né completamente fuori né totalmente immerso nel regno finzionale, nel film di Morgen sembra spingersi verso l’assottigliamento di ogni intermediazione che non sia quella di un’autorialità intima e confidenziale, indicata dal passaggio dell’umano in una dimensione indicibile. La moltiplicazione dell’io narrante, anche quando si presume che Bowie si tolga le maschere, viene costantemente rimessa in abisso, basta pensare al segmento che riguarda la sua storia matrimoniale con Iman, immediatamente minacciato dalla riconfigurazione del caos nella sensorete condivisa. Su questo sfondo, c’è un’iconoclastia evidente, assegnata al discorso che si vuole costruire con la voce e con i suoni.
Se il sistema IMAX, punta ad inseguire una qualità performativa dei tasselli ipermediali, sottoposti a forme di plagiarismo vero e proprio, per suscitare un effetto sensoriale più vicino all’esperienza collettiva del clubbing che a Guy Debord, allo stesso tempo la ricerca di una coesione narrativa, costruita in modo obliquo attraverso la forma confessionale dell’intervista e altre semantiche prelevate dai personaggi interpretati da Bowie come attore, cerca di orientare la qualità caotica dei materiali, con una tensione spirituale che per definizione si pone come anti-racconto, negando l’inizio e la fine dell’ordito.

Il sogno ad occhi aperti visto dalla luna assume allora la consistenza fuggevole di quel picco di attività cerebrale che può manifestarsi poco prima di morire, come un flusso di coscienza condensato e ricombinato da un’altra dimensione. Un travelogue simile a quello Bowiano a Singapore che emerge come elemento centralissimo nel film, con le immagini girate da Gerry Troyna per Ricochet, il documentario del 1984, a cui Morgen assegna il compito di raccontare un rito di passaggio.

Ecco che performance live, documentarismo, ricerca storico-biografica, diario collidono verso una forma ineffabile che non sempre mantiene ciò che promette, ma che nelle intenzioni sarebbe probabilmente piaciuta a Bowie, così refrattario rispetto al mimetismo parodico dell’omaggio.

[Immagini stampa e trailer presenti nell’articolo forniti da Studio Digital PR SWSERVICE – Silvia Saba]

Moonage Daydream di Brett Morgen (Documentario, USA 2022 – 140 min)

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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