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Moving On di Yoon Dan-Bi: recensione

Il piccolo Dongju e la sorella adolescente Okju vanno a vivere nella casa del vecchio nonno insieme al padre, dopo la separazione dalla moglie. Primo film per la regista coreana Yoon Dan-Bi, racconto di perdita e di formazione visto al Torino Film Festival 2020

Il primo lungometraggio della regista coreana Yoon Dan-Bi ruota intorno ad una selezione di eventi autobiografici e delinea la storia del piccolo Dongju e della sorella adolescente Oju. Quando il padre si separa dalla moglie, passeranno l’estate nella casa del nonno, insieme alla zia. Nello spazio della nuova casa, condivisione e piccoli grandi scontri segneranno lo scorrere del tempo e per Okju, il doloroso passaggio all’età adulta.

Moving On il film di Yoon Dan-Bi presentato al Torino Film Festival 2020. La recensione

L’estate come sentimento della fine. Strugge, consuma, sgretola, per parafrasare alcuni versi di Giuseppe Ungaretti. Nel cinema coreano anche recente ha un ruolo specifico e accoglie la complessità dei sentimenti famigliari come un riverbero. L’esordiente Yoon Dan-Bi, giovanissima regista laureatasi in cinema all’Università di Dankook, ha cominciato a lavorare al suo primo lungometraggio nel lontano 2015 come progetto di tesi, per affinare l’idea di partenza insieme alla produttrice e direttrice della fotografia Ji-hyeon Kim, già al lavoro per i due lungometraggi di Yoon Ga-eun, nuova promessa del cinema coreano vicina per certi versi allo sguardo della collega, nel rappresentare i sentimenti di una gioventù in transito, colta in quella fase di transizione dove l’estate gioca un ruolo ambientale e interiore, fondamentale.

Per un progetto che mette al centro la lenta disgregazione di un nucleo famigliare allargato, secondo tradizione coreana, Yoon Dan-Bi ha scelto una via sostanzialmente autobiografica, riducendo la propria esperienza e concentrandosi sulla ricerca di una dimensione ambientale che potesse dar corpo alle falde del tempo e della memoria. Proprio la casa in cui si ambienta gran parte del film ha richiesto un accurato lavoro di selezione, a conferma di un’intenzione specifica, quella di trasformare il luogo in un vero e proprio personaggio.

C’è già una dichiarazione di intenti, che affonda le radici in alcuni aspetti legati al cinema di Ozu e ad un film come “Sōshun”, incluse le successive elaborazioni, ri-scritture e revisioni di alcuni elementi portanti nella storia del cinema Giapponese contemporaneo. Allo stesso tempo, nonostante il veicolo promozionale approntato dal Festival di Rotterdam abbia puntato tramite la comunicazione ufficiale al confronto con il cinema di Kore-eda Hirokazu, il cui debito con Ozu andrebbe discusso con maggiore complessità, “Moving on” si inserisce in modo obliquo entro quel tracciato del cinema coreano che dalla fine degli anni novanta fino al primo decennio del nuovo millennio, ha messo in discussione l’assetto del sistema patriarcale, mostrando contraddizioni e cortocircuiti, spesso con feroce cinismo.

Lo sguardo di Yoon Dan-Bi non è meno ficcante, nonostante l’apparente delicatezza dei toni. Si muove ai margini di questa grande struttura concentrica e la ridiscute attraverso la percezione di un’adolescente, il cui senso di inadeguatezza rispetto alla realtà quotidiana, precede e allo stesso tempo è conseguenza della situazione famigliare.
Mentre tutto sembra premere verso la fine di una storia collettiva, è proprio lo sguardo tra infanzia e adolescenza a ricercare ostinatamente le condizioni per ristabilire un principio di unità basato sulla comprensione e l’ascolto.

Il vecchio nonno ormai al tramonto è un patriarca stanco, in balia delle sue condizioni, perso nella struggente nostalgia di un passato irrecuperabile e ancorato al grande giardino che circonda la casa. Tutte le piccole e umanissime trame che si muovono intorno a lui, tessute dai due figli, sono conseguenza di quella sopravvivenza quotidiana che in un solo gesto sovrappone necessità e piccole meschinità.
Dalle scarpe contraffatte vendute dal padre dei due giovani, fino alle lievi dispute con la sorella per la vendita della casa paterna, il fallimento mai dichiarato della generazione di mezzo è al contempo comprensibile e tragicamente violento, se lo osserviamo dal punto di vista del piccolo Dongju e della giovane Okju.

L’osservazione dolorosa e sempre presente della ragazza è quella privilegiata da Yoon Dan-Bi, tanto da consentirgli di sviluppare un film in soggettiva, anche quando tecnicamente il quadro prospettico appare più ampio.

Senza servirsi del potere rivelatorio del dialogo, la regista coreana assegna al rapporto tra spazio e personaggi una libertà amplissima, tanto da ricostruire quella flagranza esperita nella singolarità accidentale dell’evento. Questo emerge tra le pieghe del quotidiano, senza consolidarsi e spesso spostando elementi essenziali in una posizione che non ci consenta di operare un giudizio morale esclusivo su eventi e personaggi.

Oltre il suo ruolo e la legittimazione della propria identità in seno alla famiglia, Okju abita in modo dolente il senso dell’estate come sentimento della fine, dove il peso di tutte le nostalgie e delle occasioni perdute separa il torpore di un tempo sospeso da un possibile ritorno a casa, ormai irrimediabilmente già adulti e distanti dal riflesso precedente. Le sue lacrime sono quelle che sgorgano per l’impossibilità di adattarsi a qualsiasi luogo, oppure a causa di una piccola perdita sentimentale vissuta come un trauma, dove ogni luogo ferisce, lo spazio non è sufficiente, i sentimenti incontenibili.

Questa esperienza del vuoto, Yoon Dan-Bi riesce a rifletterla certamente nello schema delle relazioni intergenerazionali, soprattutto con la riconfigurazione del principio di autorità paterna, sottoposto ad un’erosione naturale, ma anche a progressiva auto-delegittimazione, come nel caso del padre dei due ragazzi, le cui piccole e maldestre truffe allestite per sopravvivenza, sono origine della vergogna, della sofferenza, ma anche della consapevolezza di Okju nel passaggio all’età adulta.

Ma soprattutto è nell’organizzazione spaziale della casa che la regista coreana lavora con molta attenzione. Ogni porta dischiude un mondo solitario e potenziale, chiuso e comunicante.
Non solo l’ascolto periodico di una canzone di amor perduto che il nonno si gode nella penombra ad occhi chiusi, ma anche le stanze dei ragazzi, il rituale del cibo condiviso e quella stessa condivisione che si contrae oppure si allarga per diverse condizioni e disponibilità d’animo.

La morte conduce irrimediabilmente verso la percezione di una reciprocità negata e il pianto incontenibile di Okju non si manifesta durante il pranzo funebre allestito nella camera ardente, ma nella casa in cui ogni oggetto racconta la presenza del nonno. Yoon Dan-Bi crea questa lenta e inesorabile deflagrazione attraverso una serie di controcampi muti, svuotati della presenza corporea e investiti di senso. Il divano vuoto e il cuscino appoggiato sullo schienale, il giardino e un antico ritratto con la nonna; correlativi emozionali che concorrono alla creazione di un paesaggio interiore.

“Moving on” con semplicità e sorprendente rigore riesce ad aprire un varco tra il solco scavato dalle immagini della memoria e la solitudine che gli oggetti possono generare, nell’esperienza percettiva del presente.

Moving On (Nam-mae-wui Yeo-reum-bam) Corea Del Sud 2019 – 105 min
Interpreti: Choi Jung-un, Yang Heung-ju, Park Hyeon-yeong, Park Seung-jun
Sceneggiatura: Yoon Dan-Bi
Fotografia: Ji-hyeon Kim
Montaggio: Chang-Jae Won

https://youtu.be/AfFObivCVwU

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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