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National Gallery di Frederick Wiseman: la recensione

National Gallery di Frederick Wiseman, Leone d’Oro alla Carriera all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, presentato nella Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2014, sarà  nelle sale per un unico giorno, l’11 marzo 2015, distribuito in Italia da Nexo Digital e I Wonder Pictures, in collaborazione con Unipol Biografilm Collection e con Sky Arte HD e MYmovies.it

In silenzioso ascolto e minuziosa osservazione, per dodici settimane tra il 2011 e il 2012, Wiseman è entrato nei saloni di marmo dove si rischia la “sindrome di Stendhal” ad ogni passo, ha aperto le porte degli uffici di curatori, impiegati e sovrintendenti, ha sbirciato nei laboratori dove tecnici di ogni mestiere si muovono operosi, ha assistito alle riunioni dello staff  dirigente alle prese con un dibattito difficile sul ritorno d’immagine del Museo e sulla necessità o meno di operazioni che rischiano di commercializzare qualcosa che non può piegarsi a regole di mercato.

Ha registrato interviste di storici dell’arte ad emittenti televisive in vista di qualche evento speciale prossimo venturo, si è fermato ad ascoltare guide che spiegavano al capannello dei visitatori storie note e segrete della tela alle loro spalle, ha guardato uomini e donne, potenti magnati e cardinali in posa solenne, fanciulle in fiore e vecchie grinzose, costringendoli ad affacciarsi alle cornici dorate e, guardando in macchina sornioni e indolenti, curiosi o infastiditi, sorridenti e compiaciuti o schifati di questo mondo, restituire lo sguardo.

Di tanto in tanto è uscito a dare un’occhiata a Trafalgar Square, una panoramica sulla piazza attraversata dai famosi bus rossi a due piani lo ha ricollegato al ritmo pulsante della metropoli.
Poi di nuovo dentro, lasciando la sicurezza a sbrigarsela con gli attivisti di Greenpeace che, in polemica con la Shell che è anche sponsor della Galleria, si arrampicavano sulla facciata per piazzare lo striscione a difesa dell’Artico.

L’occhio di Wiseman è stato vigile su ogni dettaglio di quella “creatura viva” che è la National Gallery di Londra, perché oltre a Leonardo e Caravaggio, Turner e Goya, Tiziano, Holbein, Bronzino, Rembrandt, Velasquez, Pisarro e a tanti altri ancora, c’è l’uomo che passa il mattino a lucidare a specchio i pavimenti con la sua macchina a cuscinetti rotanti, ci sono i problemi di gestione di un corpo così mastodontico e prezioso, c’è un mondo che gira dentro e intorno al palazzo perché tutto funzioni, un microcosmo di tecnici, restauratori, amministratori che lavorano al mantenimento di un patrimonio che deve essere conservato, tramandato, mostrato agli uomini della strada che ogni giorno si accalcano al box office, arrivando da tutto il mondo.

Uno sguardo attento alla grande responsabilità di accogliere 5,2 milioni di visitatori l’anno, masse a cui bisogna rispondere con un’offerta efficiente, che metta ognuno in condizione di godere di tanta bellezza. E se fuori dall’edificio resta una coda di turisti delusi che non possono entrare per il tutto esaurito della mostra su Leonardo, è uno scacco del Museo, non del pubblico.

L’intento di Wiseman non è mai apparso didascalico o celebrativo, il suo obiettivo era reinserire un luogo per tante ragioni particolare, com’è un Museo, nella corrente quotidiana delle attività umane, liberandolo da quella patina di solennità maestosa e un po’ soggiogante che un posto del genere tende ad assumere.
Proporlo come mondo vivo, attivo e in divenire, questo era il suo progetto e per questo ha lasciato che fosse il Museo a parlare di sè, in una presentazione a più voci, quella delle opere che dialogano col pubblico e raccontano la lunga storia del genio umano, e quella degli uomini che si muovono intorno a tutto questo con impegno giornaliero, perché occuparsi delle opere d’arte non è meno importante o faticoso che costruire macchine o fare il pane per la tavola di tutti i giorni.

Wiseman non ha fatto il solito audio/video da bookshop, non ha aggiunto interviste né voci fuori campo a guidare il percorso. Nelle sue mani, all’occhio della sua macchina che si è insinuata in ogni anfratto, la National Gallery è stata un corpo vivo che lui non ha inteso glorificare né spiegare. La bellezza si impone da sola e quel che a lui interessava era piuttosto indagare l’atto del guardare ponendosi una domanda.

Questa: può un Museo, spazio artificiale fatto per l’approdo, la custodia e la visione di opere nate per altri luoghi e destinazioni, lasciare che parlino come una volta al loro pubblico? Che esercitino la stessa funzione, quale che sia, per cui erano nate?

La risposta è sì, uomini e opere continuano a parlarsi e ad ascoltarsi, il Museo che Wiseman ci propone intrecciando presente e passato senza pedanteria, con inedita e piacevole naturalezza, torna ad essere quella “casa delle Muse” che fu scelta da Apollo per intonare il suo canto.
Wiseman è un narratore paziente che rifonda un’etica dello sguardo, quello di chi osserva l’opera d’arte sapendo che, un giorno, intorno a quei dipinti, si sprigionava odor d’incenso, e quei polittici o trittici o pale d’altare offrivano oro e bellezza allo sguardo degli abitanti di un mondo in cui era molto facile morire. Quei santi in preghiera pregavano Dio per loro, perché li salvasse dalla morte eterna, quei guerrieri a piedi o a cavallo avevano combattuto ed erano morti per loro, erano i loro libri, i loro televisori, il loro cinema.

Quella di Wiseman è una regia che ha un messaggio da comunicare, una sceneggiatura da svolgere, attori da guidare. Ne risulta un percorso stravagante e inatteso, un racconto sull’arte stratificato e affascinante, ma anche uno sguardo sul mondo che l’arte accoglie, custodisce, ama.
Decidere con la necessaria attenzione dove esporre un trittico, studiare la luce giusta per illuminarlo, ora che non è più nel suo luogo naturale di destinazione, è come accogliere in casa propria un ospite di riguardo, metterlo a suo agio, onorarlo.
In questo è l’alto valore propedeutico del lavoro di Wiseman.

Egli ci dice cosa c’è dentro e dietro quei quadri, quello che vediamo e quello che non vediamo, e ogni volta è una scoperta o una conferma: “Raccolgo sempre moltissime ore di girato. Per questo i miei film sono ogni volta dei mosaici. Lo scopo del montaggio è così quello di trovare una struttura e una ritmica sulle quali non ho mai idee precostituite (…). I miei film sono sempre una scoperta.”

E allora, sembra chiedersi, cosa ci fa un cranio umano in basso, deformato dall’anamorfosi, al centro del ritratto degli Ambasciatori di Holbein? E il viso cereo e rugoso della vecchia che sbuca dalla gorgiera bianca due sale più in là, e fissa la giovane ragazza della scuola d’arte che la sta copiando a carboncino, cosa sembra volerle dire?

Tutti possono conoscere il futuro, è il passato che non si conosce…
E’ la voce che accompagnava le immagini di Arca Russa di Sokurov, e sembra di udirla di nuovo mentre Wiseman passa di sala in sala, è “le côté spirituel de l’oeuvre”, il suo messaggio ogni volta ripetuto.

Wiseman avvicina la macchina alle opere, poi la gira sui visitatori, gli sguardi s’incrociano, dialogano da una lontananza di secoli, ma lo spazio è qui e il tempo è ora, e perciò si può partire alla ricerca di strati nascosti, doppi fondi mai sospettati, può iniziare quel processo di rivelazione continua che sgorga dall’opera e non finirà mai, fin quando essa vivrà.

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