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Natural Light (Természetes fény) di Dénes Nagy: recensione

Durante la seconda guerra mondiale, nell'unione sovietica occupata, István Semetka, un contadino ungherese, assume il ruolo di caporale nell'unità speciale incaricata di trovare i membri dei gruppi partigiani. Natural Light è il debutto nel cinema narrativo del documentarista ungherese Dénes Nagy, visto in concorso a Berlino 71. Orso d'argento per la miglior regia

Dei vent’anni entro i quali si sviluppa la vita del personaggio centrale nel romanzo scritto da Pál Závada, Dénes Nagy ha scelto e contratto solamente tre giorni durante il 1943; quelli dove István Semetka è costretto a prendere il controllo dell’unità militare incaricata di stanare i partigiani ostili alle potenze dell’Asse, nascosti tra la foresta e le abitazioni di un piccolo villaggio della campagna sovietica.

Nagy, forte di un’esperienza empirica nel cinema del reale, sceglie il dialogo tra natura e volti, mettendo al centro quello di Semetka, sguardo posizionato al livello di una coscienza immanente, incarnata radicalmente nel presente.
Niente sappiamo della sua storia personale, se non per alcuni accenni che saranno collocati ormai ai margini della vicenda, né conosciamo le azioni che hanno condotto questa figura tra luoghi che divorano la presenza umana.

Una distanza dalla Storia che è anche infilmabilità dell’evento, rimosso che fa i conti con le tracce di numerosi massacri, piccoli e grandi olocausti cancellati dalla memoria.
Nagy è interessato a sondare l’ambiguità di un gesto, attraverso le pieghe del volto e l’eco di una natura sempre presente, anche in termini aurali. Sospeso tra l’esecuzione di un compito militare e la possibilità di esprimere empatia per i contadini del luogo, l’espressione di Semetka non viene caricata di senso se non dal continuo e progressivo incontro con l’ineffabile.

Gli animali, nel mondo crepuscolare fotografato da Tamás Dobos, incarnano la frattura totale con la realtà dei segni, designando un’aderenza totale con l’esistente. La carcassa di un cervo fatta a pezzi, l’occhio di un cavallo che risuona con corpi e tensioni del tutto estranee, il terrore di un altro finito in mezzo all’indifferenza delle sabbie mobili.
Il qui e ora del mondo animale e naturale è l’habitat entro cui Semetka si muove, come cosa tra le cose.

Il percorso del regista ungherese segue un rigore filologico del tutto interno alla costruzione temporale della sequenza, che include l’impiego di interpreti non professionisti e la replica esperienziale di quell’estraniamento che investì i contadini mandati a combattere in Russia durante il secondo conflitto mondiale, lavorando in totale comunione con il contesto ambientale.

Si cerca nel paesaggio come nei volti, l’impossibilità che questi possano rivelarsi completamente, oppure diventare una chiave intellegibile per interpretare le proporzioni di una tragedia in corso. Tutto è osservato dall’occhio-mondo senza che vi sia una marcatura percepibile tesa a privilegiare un’evento o un fenomeno a dispetto di un altro.
Sono geografie che fanno venire in mente il cinema di Sharunas Bartas, soprattutto per il modo in cui sospensione e de-realizzazione del presente entrano in gioco per delineare figure nel paesaggio, spossessate dalla propria narrazione e condotte in uno spazio transizionale; le similitudini con il recentissimo In The Dusk sono a questo proposito davvero molto forti.

A Dénes Nagy manca, a nostro avviso, la capacità di far coesistere nitore e accuratezza dei dettagli con quell’oscillazione potente tra segno e indecifrabilità, tanto che certe dinamiche sottrattive e lo spostamento ai margini del climax, ridotto ad un livello eminentemente auditivo, appaiono come “rigorosi” esercizi di stile che tagliano fuori ogni imperfezione empirica, ricostruendo una cornice ben precisa laddove si cerca di aprirne la struttura.

Persino il lavoro della compositrice lettone Santa Ratniece, nel tentativo di fondere la sua ricerca sulla musica microtonale con il sound design che nel film isola alcuni epifenomeni naturali, sembra spingere verso la definizione di un’atmosfera ben precisa, anch’essa parte di quella pericolosa tendenza contemplativa che si inscrive perfettamente entro i margini della rappresentazione, senza disinnescarla e aprirla alla pressione dell’invisibile sul visibile.

Natural Light ( Természetes fény – Ungheria 2021 di Dénes Nagy – )
Interpreti: Ferenc Szabo, Tamas Garbacz, Laszlo Bajko, Gyula Franczia, Erno Stuhl, Gyula Szilagyi, Mareks Lapeskis, Krisztian Kozo, Csaba Nanasi, Zsolt Fodor
Fotografia: Tamas Dobos
Sceneggiatura: Denes Nagy, basata sul romanzo di Pal Zavada
Montaggio: Nicolas Rumpl
Musica: Santa Ratniece

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
natural-light-termeszetes-feny-di-denes-nagy-recensioneDurante la seconda guerra mondiale, nell'unione sovietica occupata, István Semetka, un contadino ungherese, assume il ruolo di caporale nell'unità speciale incaricata di trovare i membri dei gruppi partigiani. Natural Light è il debutto nel cinema narrativo del documentarista ungherese Dénes Nagy, visto in concorso a Berlino 71. Orso d'argento per la miglior regia
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