New York, New York è sconclusionato, nostalgico, il saggio appassionato di un uomo che intendeva onorare i suoi idoli e il cinema classico, lo splendore di un genere ormai passato e impossibile da replicare.
Potrebbe essere paragonato a All That Jazz di Bob Fosse o Un sogno lungo un giorno di Francis Ford Coppola, film che abbracciano una linea narrativa formale e rigorosa a suo modo come quella di un sonetto, con splendide canzoni che raccontano i suoi protagonisti e allo stesso tempo ne certificano la natura ormai obsolescente.
Lo stile visivo è deliberatamente artefatto e teatrale, come se gli interni volessero rievocare i vecchi set mentre gli sfondi sembrano dipinti, una consapevole meditazione personale di Scorsese su gli artifici dello spazio cinematografico, un tuffo nel passato in quel cinema musicale che ci riporta subito alla mente Scarpette rosse e Un americano a Parigi. L’amorevole ricostruzione del V-J Day, l’orchestra di Tommy Dorsey che suona gli irripetibili successi del tempo sono splendidi se non fosse che in New York, New York non accade niente che non possa essere riportato alla realtà e definito realistico.
Qui nasce il problema, l’inghippo, quando il film con le sue atmosfere fosche e soffocanti ha più cose in comune con Mean Streets che con qualsiasi musical con grandi budget e aspirazioni liriche. Jimmy Doyle, interpretato da Robert De Niro, è un talentuoso musicista jazz, introverso, scontroso, egocentrico e sconsiderato, tende sempre a esagerare, trasformando ogni suo eccesso in una scena memorabile perché la sua maschera clownesca salta pochi istanti dopo, nella commovente accettazione di sé.
Francine Evans, interpretata da Liza Minnelli, è così eroicamente paziente che è impossibile non amarla, dolce, arguta, priva di quelle esplosioni nevrotiche che invece caratterizzano l’uomo che l’ha sedotta e che ora ama.
La sensibilità, l’empatia e la positività di Francine la rendono un’ideale eroina da musical, mentre Jimmy è l’antieroe, un idiota emotivamente compromesso che può farcela solo attraversando le fiamme del suo stesso inferno, con il suo ego fragile e il suo disperato bisogno di essere amato.
Due caratteri inconciliabili, due visioni, due stili, due città proprio come sottolinea il titolo, due New York, una dolce e pop come Francine e l’altra estrema, priva di compromessi come Jimmy.
E siccome l’happy ending appartiene solo alla fantasia della fiction, nella realtà le cose vanno diversamente, Francine diventa una grande star, Jimmy un acclamato musicista ma il loro amore si spezza prima in una stanza dell’ospedale poi di fronte all’uscita d’emergenza di un teatro, quando le porte restano chiuse. Jimmy si allontana e la cinepresa inquadra l’angolo di strada vuoto. Un finale sconcertante ma non per Scorsese che ha saputo orchestrare contemporaneamente la fuga musicale che desiderava mantenendo i piedi ben saldi nella nostra realtà sempre deludente.
Dopo quarantadue anni la versione restaurata alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.