Seconda guerra mondiale, Filippine. Le truppe di occupazione giapponesi stanno passando un momento durissimo, oltre a dover affrontare la resistenza del luogo devono difendersi dall’avanzata statunitense. Tamura, un soldato giapponese affetto da tubercolosi, dopo esser stato abbandonato dal suo gruppo e dopo essersi rifugiato in un ospedale che sarà distrutto la notte successiva, scapperà nella giungla dove si confronterà con un pericolo sempre più insidioso che non si identificherà semplicemente con le truppe nemiche.
Shinya Tsukamoto adatta per lo schermo “Nobi”, il romanzo di Shohei Ooka scritto agli inizi degli anni ’50 ed edito anche in Italia da Einaudi a partire dalla seconda metà dello stesso decennio con il titolo de “La guerra del soldato Tamura“. A 55 anni di distanza dalla versione cinematografica diretta da Kon Ichikawa e affascinato dal crudo realismo soggettivo della storia originale, Tsukamoto realizza un film fortemente personale, prodotto come di consueto in totale autonomia attraverso la sua Kaijyu Theatre.
Traendo ispirazione dalle vivide descrizioni dell’ambiente naturale presenti nel romanzo di Ooka, il cineasta giapponese immerge il suo “Nobi” nei colori saturi di una giungla filmata in digitale, lavorando sulla percezione dell’ambiente circostante, oltre che sul corpo. Se gli ultimi film di Tsukamoto si erano spinti verso una sintesi “grafica” che concideva con un processo di interiorizzazione del conflitto organico/inorganico spostando l’attenzione dalla solitudine dell’individuo nella città fatta di innesti, alla mutazione del nucleo famigliare (Tetsuo the bulletman, Kotoko), questo suo nuovo lavoro si apre ad una prospettiva completamente diversa che segue più di una traiettoria.
La vastità della natura è un’immagine persistente, la cui necessità sovrasta la decomposizione della carne; al suo interno l’uomo perde qualsiasi limite percettivo, preoccupato com’è di confinare uno spazio irriducibile. Tsukamoto cancella la struttura classica del film bellico, sostituendo gli avamposti da conquistare con una progressiva perdita dell’orizzonte visivo. La natura di “Nobi” non ha una direzione, è un universo avvolgente che anticipa lo sguardo. La frammentazione visiva del cinema di Tsukamoto, sempre concitato, oltre il concetto di “camera a mano” proprio perchè sempre vicino alla mutazione vibrante dei corpi, quindi fortemente tangibile, giunge qui ad un parossismo aptico che non consente di distinguere soggetto e oggetto della visione; ci riferiamo ai corpo-a-corpo, alle sequenze di massacro, alle improvvise esplosioni di violenza, dove è impossibile distinguere la logica dell’azione mentre gli organi si spandono e la carne si stacca dal corpo.
Non esistono opponenti nè un semplice dualismo, l’mmagine della violenza è quella di una divorante energia negativa, una pulsione autodistruttiva che accade nel complesso contenitore naturale, per poi essere inghiottita dalla terra. I nemici non si vedono mai in “Nobi”, quando si verifica un confronto diretto, questo assume il volto terrificante della paura sovrapposta al desiderio, come nell’incontro di Tamura con la coppia di Filippini all’interno di una chiesa abbandonata, oppure nella sequenza della carneficina di massa dove il fuoco americano è visibile solo per gli effetti sui corpi.
Sviluppato a partire dal punto di vista degli aggressori e non delle vittime, ci sembra che “Nobi” superi l’intuizione del film “rimosso” nella filmografia di Stanley Kubrick, quel “Fear and desire” che a sua volta raccontava il cammino palindromo di un plotone nella foresta, verso il riconoscimento del proprio volto nello specchio riflesso della parte nemica. Oltre la paura e il desiderio del doppio, Tsukamoto trova il suo di volto, scrittore o cineasta che sia, la sua è una vicinanza fisica e cognitiva che va oltre la redazione di un memoriale, le fiamme che vede dalla finestra della sua casa nella sequenza conclusiva del film, racchiudono le urla e l’odore della carne bruciata che la natura conserva nel suo patrimonio metagenetico.