Una serie estenuante di nude Veneri di Willendorf in formato umano, steatopigie disgustosamente debordanti e tremolanti, coperte solo da alti stivali e frustino da domatrici di circo, è il primo pugno allo stomaco dello spettatore che Tom Ford sceglie di dare in apertura. Altri ne seguiranno, fino all’ultima scena, una chiusura molto soft ma non meno raggelante.
Le inquadrature frontali al rallentatore su ogni soggetto della performance (perché di questo si tratta) lasciano tutto il tempo allo stupore e al rigetto visivo, poi il campo si allarga e la levigata mondanità upper class delle gallerie alla moda e dei vernissage che contano nel regno della Grande Mela riprende, ciarliera e fané, il suo posto nel mondo.
Susan (Amy Adams) entra subito in scena. Ricca gallerista in carriera, un concentrato di bellezza costruita con calibrata cura del particolare, tristezza controllata ma non per questo meno visibile negli occhi meravigliosi che, pare, non dormano mai, incedere sicuro su stivaloni neri e lunga chioma da amazzone, apparente sicurezza di donna dominatrice ma reale fragilità balenante in ogni gesto delle mani nervose, Susan dovrà ben presto fare i conti con le scelte sbagliate della sua vita.
Il suo appuntamento con la Storia sarà un pacco che lei apre ferendosi al dito.
Sono le prime gocce di sangue, altro ne scorrerà, a fiotti, reale e metaforico.
Il contenuto del pacco è un romanzo di Edward (Jake Gyllenhaal), il primo marito ( “Oh, solo due anni di matrimonio, ai tempi dell’Università ”), quello che, a detta della madre (Laura Linney), la piccola non avrebbe mai dovuto sposare, uno scrittore in cui Susan non ha mai creduto e che lasciò ben presto per il fascinoso e ricco Walker (Armie Hammer), liberandosi tramite procurato aborto del figlio che stava per nascere.
Ma ora, vent’anni dopo il divorzio, e con Walker che la tradisce con i soliti, vieti sotterfugi in corso tra le coppie in crisi, arriva Edward a chiedere il suo parere su quella storia di “animali”:
“Credo che Edward abbia scritto questo libro e l’abbia mandato alla moglie per dirle “Ecco cosa mi hai fatto”. Ma per farlo ci ha impiegato 20 anni. Quello che mi ha colpito nella storia sono le scelte che facciamo nella vita e quanto a lungo a volte aspettiamo per farle” sostiene il regista.
Una vendetta, dunque? Chissà, benchè servito freddo come si conviene, è un piatto ben misero e Tom Ford vuol dire molto altro.
Parlare di animali notturni è parlare di quel buio profondo da cui riaffiorano, prima o poi, tutte le nostre rimozioni, quando le pulsioni narcisistiche non ci salvano più nel quotidiano procedere della vita.
Il regista texano, stilista di grido approdato al cinema per lontana vocazione, attento conoscitore del mondo glamour e fashion che qui prende di mira, questa volta dà l’affondo e per farlo sceglie un romanzo di Austin Wright, Tony and Susan, storia della proprietaria di una galleria d’arte perseguitata dal romanzo dell’ex marito Edward.
E’ la mise en abyme di una storia inventata con tutti gli ingredienti del noir che si riflette nella storia “vera” di Susan ed Edward, in un processo di identificazione continuo nello scambio tra persona e personaggio.
Difficile dirimere realtà da fantasia, tanto il viluppo è ben ordito tra la vicenda thriller della famigliola distrutta da tre balordi, di notte, lungo una di quelle strade americane che viaggiano verso il nulla per centinaia di km., e la storia asettica e infelice di Susan. Sembrano l’una il rovescio dell’altra, una condizione “lacaniana” per eccellenza, dove ” l’inconscio è strutturato come un linguaggio” .
Le immagini mentali di quel che Susan va leggendo pagina per pagina diventano così scene reali di un film, e come nei sogni si caricano di simboli, come nei romanzi di parole.
Quello che Susan legge è la sua vita, poco importa se i connotati sono diversi, non avviene così anche nei sogni?
Qui c’è opulenza, bellezza, architetture avveniristiche e mobili di design con opere di Jeff Koons in bella mostra (non a caso un Balloon dog in salotto crea un perfetto pendant con le Veneri iniziali), lì c’è la frontiera, il vizio, lo sporco, il policeman che sembra uno sceriffo del vecchio West (Michael Shannon in una delle sue performances migliori), “la faccia triste dell’America” che sputa per terra e spara come se scartasse caramelle.
E’ all’incrocio di questi due livelli che il senso si definisce nei suoi contorni più spietati, affrontare la verità oscura di sè stessi è appuntamento improcrastinabile.
Merito del regista è aver dato corpo e anima ad una storia che, non rinunciando all’impianto narrativo che resta pur sempre l’ossatura base di un buon film, stratifica a livelli di volta in volta più profondi i suoi significati complessi, parla del buio stirando il collo per respirare, ma poi qualcosa dal fondo lo riafferra e lo trascina giù.
Le tattiche shock nella messa in scena del romanzo di Edward diventano così paradigmatiche di una condizione umana che la metafora mette a nudo senza veli, i punti di torsione dell’intreccio raffreddano l’emotività, il quadro angelico dei corpi nudi delle due donne stuprate e massacrate poche ore prima, linee purissime distese sul divano rosso abbandonato in una discarica, è funzionale a questo rimbalzo tra verità e finzione.
Un esame provocatorio e agghiacciante della vita è quello affrontato da Nocturnal animals, uno spazio disabitato in cui ognuno è separato dall’altro, un regno di solitudine dove non resta che bere l’ultimo sorso di whisky e andar via dal ristorante dove Edward non arriverà mai. Il lieto fine appartiene alle favole e questa non lo è.