Hey you. come here. get up
Ah, this is the era where everybody creates
Recognize my face?
(Patti Smith)
Christiane V Felscherinow è su un jet privato. Si fa strada tra i passeggeri mentre in un’atmosfera di festa sorseggiano cocktail, per avvicinarsi ad una figura solitaria appartata in fondo al velivolo. Appena riesce a sedersi di fronte all’uomo, incontra il suo sguardo terrorizzato. Gli mette una mano sul ginocchio: “non preoccuparti – lo rassicura – non ci schianteremo. Sono immortale“. Si appoggia allo schienale del sedile e con aria sicura tira una boccata dalla sigaretta. L’attacco di “Rebel rebel” consente il salto temporale dal volto della donna in primo piano ai dieci anni precedenti.
La serie scritta da Annette Hess comincia con la messa in scena di una descrizione inserita in “Christiane F. – La mia seconda vita“, il secondo libro della Felscherinow pubblicato anche in Italia nel 2013. L’episodio si riferisce ad una data del Serious Moonlight Tour, 1983, e all’invito che lo stesso David Bowie rivolge a Christiane durante una serata al Dschungel di Berlino: volare con lui insieme a tutta la band verso la prossima data del tour, sul Jet affittato dai Rolling Stones in partenza da Tegel. Un vero e proprio appartamento su ali e motore, con letti di raso, bar annesso e “un pisciatoio di marmo volante“. Bowie nascosto in un angolo con la sua aerofobia, consumato dal terrore e descritto senza alcuna pietà.
Il volto è quello di Alexander Scheer, replicante accreditato e protagonista della versione di Lazarus allestita per la prima volta alla Schauspielhaus di Amburgo dal regista Falk Richter.
Un doppio, come quelli da cui Bowie scappa nello spot della Vittel, che germina in forme e aberrazioni temporali lungo gli otto episodi di Wir Kinder vom Bahnhof Zoo, per assumere la qualità evanescente di un fantasma, manifestandosi almeno due volte in quella dimensione dove il mito è già infranto nei detriti di una figura stanca e impaurita. Prossimità del tutto opposta alla gelida distanza in cui lo immerge Uli Edel, tanto da rileggere la nota sequenza del concerto attraverso un pastiche iconologico dove gli anni del “glam” collidono con il periodo berlinese, un manifesto che rilegge l’artwork di Aladdin Sane alla luce di Pin Ups infesta i corridoi dell’U-Bahn annunciandone l’arrivo ed infine il look del primo Isolar tour precede di qualche minuto l’esecuzione di Heroes alla Deutschlandhalle.
Ibridazioni mutanti che espandono il passato nel presente attraverso un’equitemporalità dove la percezione storica degli avvenimenti non è dominata dalla successione di ciò che accade. Il flusso è quindi continuo, privato della sua logica sequenziale e guidato da una forza sensoriale di appartenenza che in qualche modo vorrebbe proporsi come transgenerazionale.
Il passato non viene soppresso in funzione del presente, sopravvive in forma plurale al centro di una dialettica dove tutti gli stili, gli eventi, le dimensioni della creatività, sono coesistenti.
Metodo che, deliberatamente, si estende ai costumi, le scenografie, gli oggetti, gli ambienti, i gesti e le attitudini che animano l’intera serie.
La replica “plagiarista” delle stazioni che formano il calvario di Christiane sono una continua entrata ed uscita da un territorio alieno all’altro. Dai telefoni a gettone e le lettere vergate a mano, alla club life berlinese con il Sound che esplode tra led e tribalità techno, mentre l’eroina vive in parallelo alle nuove droghe sintetiche e la colonna sonora che riempie le giornate dei ragazzi, alterna il Bowie dei primi settanta ad un assortimento di pop elettronico più o meno contemporaneo.
Il tentativo di riprendersi centralità identitaria e di costruire un’aura mitologica è chiarissimo nel già citato secondo libro scritto dalla Felscherinow ed è lo stesso spirito che anima il lavoro della Hess; mettere al centro di una realtà frammentata e cortocircuitata nei propri stereotipi, un vero e proprio “augment d’etre” che possa condurre verso l’emancipazione dal modello patriarcale, non importa se questo viene declinato attraverso diverse fenomenologie che lo alimentano.
Più dello sballo glorificato o del racconto d’ammonimento, le droghe diventano l’occasione per poter rivendicare la propria legittimità d’esistenza rispetto ad una realtà deflagrata.
Da una parte la pressione di un esoscheletro ipermediale che si sbarazza solo apparentemente dei dispositivi di condivisione di massa, riproposti in realtà attraverso la triturazione di segni che provengono dalle metodologie di “retrieval” connaturate a quella cultura. Dall’altra l’iconoclastia contro gli oggetti di consumo del presente, sostituiti da un carnevale di oggettistica vintage, nel suo oscillare tra bene di lusso legato all’informatizzazione del collezionismo e riappropriazione del passato come tentativo di vivere un nuovo tempo identitario.
I padri, le madri, le star, la stratificazione e la smaterializzazione di una città che rinasce da se stessa, si lasciano dietro “bave” e “detriti“. Tocca ai bambini disorientati di questo Zoo globale piazzare una mina e accenderli.