L’apparente apoditticità dell’enunciato biblico che introduce il nuovo film di Jordan Peele, se desunta dalla traduzione inglese dei versetti del profeta veterotestamentario, punta a definire la nozione di sguardo come sinonimo di spettacolo, nell’accezione di riflesso interiore improvvisamente esposto all’oscenità della rappresentazione. Il pubblico ludibrio, che ricorre nelle edizioni italiane del testo, è in Nope un’evidente occasione per riallocare il punto di vista sull’ipertrofia delle immagini massmediali, segni quantificabili di una logica computazionale che tutto divora attraverso dispositivi ed entità fredde. L’occhio di un Dio giudicante, vecchia conoscenza dei sistemi patriarcali e dei regimi che ne conseguono, torna ad essere alternativamente monito e descrizione della natura culturale dello sguardo. Ma questa natura conduce irrimediabilmente all’accecamento. Da una parte il disinnesco dei dispositivi in gioco, dal culto nostalgico di un’origine aurorale del Cinema fino alla pervasività dei sistemi di sorveglianza, dall’altra la scarnificazione dell’architettura narrativa stessa, ridotta alla forma tensiva e sospesa dei suoi stessi snodi, privati di un approdo.
La narrativa del complotto è la prima a farne le spese, sin dal titolo che Peele sceglie, vero e proprio occhio spalancato sul nulla. È quindi evidente lo strenuo rifiuto ad opporre la presenza identitaria dello sguardo alla seduzione mostruosa di un occhio/sfintere che fagocita e rivomita paramenti e orpelli di uno spettacolo costruito sui relitti dell’industria, anche quelli che consentono al critico medio di snidare tutte le citazioni più o meno evidenti.
Meno esplicito e per quanto ci riguarda più stimolante, il processo di svuotamento a cui viene sottoposto il ruolo spettatoriale, assorbito da uno spettacolo che non conduce da nessuna parte, nel continuo disattendere la logica del disvelamento, o più semplicemente nel rilevare la sostanza cinetica del duello, come quella di corpi e oggetti semplicemente contro il paesaggio.
Nella rifondazione di una storia del Cinema osservata dai margini, Peele risemantizza come suo solito tutti i vettori ideologici dello sguardo per far emergere le rimozioni di quello narrativo classico entro una cornice apparentemente postmoderna, dove i detriti ricombinati dall’estrema mediatizzazione dell’esperienza, sono gli unici disponibili affinché gli esclusi possano ricostruire narrazioni alternative. Ma quando si tratta di detriti, questi non possono che costituire la formazione di un miraggio, come accade sovente nei film del regista afroamericano.
Lo dicevamo già per Get Out, che l’interesse principale di Peele è rivolto a quella cannibalizzazione semiotica e culturale dove la blackness è un frammento di una questione più ampia, legata alla cancellazione della differenza come elemento costitutivo dello spazio sociale e creativo.
Il paesaggio che circonda il maneggio ereditato da OJ è una wasteland i cui unici bagliori di civiltà sono grandi luna park iperreali posti ai margini. I set sono quelli che da una parte alludono alla riduzione museale 3D della storia della cultura, dove l’alterazione aumentata trasforma le menzogne in esperienza immersiva, quindi più attendibili del reale. La storia di una generazione, all’alba del nuovo millennio, trova le proprie radici immaginali in una sit-com lorda di sangue e in un set vagheggiato, quello di Scorpion King, crocevia di un’epica cinematografica che anticipa l’architettura dei blockbuster a venire. Come sopravvissuti dal lato oscuro del sogno, i personaggi di Nope occupano già lo spazio transizionale tra mercato e deserto, industria e attrazioni deperibili, alla ricerca dell’immagine giusta, quella che li indirizzi al centro di un reality e fuori dal Cinema.
Nel vorticoso carosello di dispositivi, l’opposizione binaria tra digitale e analogico viene sottoposta alla stessa corrosione. Incorporata nella cornice più ampia della rimediazione digitale, la ripresa su pellicola viene fagocitata dal mostruoso maelstrom alieno, insieme al solitario avventuriero che opera dietro una macchina a manovella autocostruita. C’è un po’ di tutto nella gustosa parodia di Peele e non ci interessa indirizzarne la paternità simbolica, soprattutto considerando il lavoro di Hoyte Van Hoytema con l’architettura IMAX su cui è costruita la dimensione visuale del film e il budget colossale impiegato consapevolmente per costruire una forma spettacolare basata sullo svuotamento e sul potenziamento stesso dell’immagine.
L’analogico sembra occupare il ruolo del detrito feticistizzato, il sembiante di un cinema-nostalgia autodistruttivo e incapace di vedere oltre il recupero di un orizzonte aurorale impossibile. Solipsista e chiuso nella propria autoreferenzialità, non si blocca come i dispositivi digitali, ma fallisce miseramente nell’illusione pseudo-scientifica di catturare il centro della realtà. Non è un caso che Peele faccia coincidere la ricerca della luce perfetta, con una morte altrettanto esemplare dove la straordinaria amoralità animale ribalta lo sguardo pornografico del documentarista, illuso di comprendere la libertà delle bestie mentre ne ammira la ferocia in moviola.
Due sogni di onnipotenza allo specchio, l’automazione digitale disincarnata e la riproducibilità del gesto meccanico senza sguardo. Allora più di un gioco combinatorio di rilevanza pop, il grande occhio che scatta fotografie istantanee di enormi dimensioni, come un pozzo che guarda dal basso verso l’alto, sembra risiedere proficuamente tra i due mondi. Da una parte il processo di sviluppo dell’immagine coincidente con l’istante, dall’altra l’idea che lo scatto contenga ancora quel punctum di imprevedibilità, collocato tra la dimensione soggettiva del sentire, e l’inafferrabilità della prospettiva spaziotemporale. La flagranza è allora questione di intensità oltre che assunzione identitaria del punto di vista.
I sabotaggi dei dispositivi sono del resto veicolati da una lunga sequenza di deficit funzionali: la mantide religiosa che occhieggia come uno strano alieno sull’obiettivo della videocamera di sorveglianza, i segnali wireless, gli smartphone e tutti i sistemi di alimentazione elettrica disattivati dall’energia del mostro, la cinepresa a manovella che finisce la bobina e più di tutti, il rallentamento a cui viene sottoposto Sunglasses at Night di Corey Hart, mentre viene riprodotta dal furgone di Angel, il tecnico video che dissemina il ranch di OJ con un sistema di sorveglianza remota. Quest’ultimo esempio, oltre a suggerire l’ampio lavoro di sound design che coinvolge l’utilizzo manipolato di un nutrito repertorio di musica pop e rock a fini drammaturgici, racconta ancora una volta l’incubo del blackout come spina nel fianco dell’onnipotenza tecnologica. Inflazione di un io onnipotente ben rappresentato dal centauro della cable TV che solca il deserto in sella ad una moto e osserva il mondo protetto da un casco a specchio. Al centro della protezione, un foro che gli consenta di fare l’unica cosa di cui è capace, inquadrare.
Le bestie; cavalli, mantidi, scimpanzé impazziti, alieni territoriali, scansionano i capitoli dei film come anime in fuga dalla centralità opprimente dell’obiettivo.
Nope di Jordan Peele (USA, 2022 – 130 min)
Interpreti: Daniel Kaluuya, Keke Palmer, Steven Yeun, Michael Wincott, Brandon Perea, Donna Mills, Terry Notary, Jennifer Lafleur, Wrenn Schmidt, Keith David, Devon Graye, Barbie Ferreira, Oz Perkins, Eddie Jemison, Jacob Kim, Sophia Coto
Sceneggiatura: Jordan Peele
Montaggio: Nicholas Monsour
Musica: Michael Abels