Il film più vicino di tutti alla complessità di Rudolf Nureyev è probabilmente “Valentino” di Ken Russell. Opera estrema, costantemente sul bordo e come il suo protagonista, sospesa tra celebrazione e distruzione, trattiene le caratteristiche spirituali di un’anima che attraverso una consapevole discesa nell’ade, risorge con forza nel farsi mito attraverso il mito stesso. Questa osservazione speculare del proprio ego, quasi fosse la disperata ricerca di un riflesso di vita filtrato dalla finestra dell’arte, viene raccontata da David Hare e messa in scena dall’occhio misurato di Ralph Fiennes, durante la contemplazione estatica di Rudolf davanti al patrimonio artistico esposto al Louvre; in particolare nella sequenza in cui si perde tra i corpi in tensione dipinti da Théodore Géricault ne “La zattera della Medusa“.
Al di là del dramma storico, è il classicismo dei corpi nudi a colpire il giovane Rudolf, anelito verso il divino che Fiennes in qualche modo assimila al percorso di formazione del ballerino e coreografo russo, con quei frammenti legati all’infanzia, ma anche con l’insistenza con cui isola i suoi piedi nei momenti di massima sofferenza, durante l’apprendistato con Alexander Pushkin.
Eppure la sensazione che la compenetrazione tra i corpi di Géricault e lo sguardo di Rudolf avvenga con modalità sin troppo didascaliche, dimenticandosi del fuoco infernale della passione, viene confermata da una normalizzazione evidente di tutte quelle contraddizioni che dilaniavano uno spirito inquieto come quello di Nureyev.
La scrittura di David Hare, che ancora una volta sembra giocare vitalmente con le aporie del tempo senza apparente soluzione di continuità, avrebbe forse avuto bisogno di uno sguardo più visionario, meno contenuto entro i margini del dramma televisivo di matrice britannica e più interessato ad infrangere quella cornice che si frappone tra passato e presente.
L’esilio e la ricerca di una terra senza terra, dove il librarsi della danza possa identificare l’unico territorio possibile per il giovane ballerino, è un motivo centrale nel film di Fiennes e trova forse la sintesi più accurata nella lunga messa in scena all’aeroporto di Parigi, tra i tentativi del governo russo di riportarselo indietro e il delinearsi di una nuova casa d’adozione.
Il volto di Oleg Ivenko sembra quello di un adolescente, la cui espressione racconta quel transito doloroso tra infanzia ed età adulta.
Sospeso tra due terre, vorrebbe non dover scegliere.
Fiennes concentra in quello spazio il ritmo del noir politico con gli eccessi del melodramma, riassumendo le caratteristiche più controverse del ballerino russo, anche nella sua relazione complessa con le figure femminili.
Tutto il lavoro sul tempo, costituito da una serie di Flashback mai evidenziati e che dialogano a distanza con il presente, viene qui contratto in uno spazio di confine che sembra rappresentare i continui, difficili attraversamenti che descrivono la relazione di Nureyev con la propria identità creativa.
Da questo punto di vista, la scelta di ridurre in termini quotidiani gli inizi turbolenti del ballerino, nel passaggio dalle costrizioni del regime alla sua esplosione in terra europea, adotta volutamente un tono minore, depotenziando qualsiasi tentativo di avvicinare l’anarchia degli eccessi.
Fiennes si tiene a debita distanza dalla disturbante relazione con il corpo e la sessualità che al contrario esondava violentemente dal film di Ken Russell. Il costante stato di prigionia raccontato in “The White Crow” è certamente più “sottile” rispetto alla violenza grafica immaginata dall’autore de “I diavoli”, ma proprio per questo cancella la sovrapposizione tra sofferenza ed estasi erotica che si respira nella scena più lurida di “Valentino”, quella della detenzione del divo dopo le accuse di bigamia per aver sposato in Messico Natasha Rambova.
Tanto infedele quanto vicinissimo alla vitale immoralità di Nureyev il film di Russell, quanto incorporato in uno sguardo distante e algido il Corvo Bianco di Fiennes.
Eppure i volti di Clara Saint (Adèle Exarchopoulos), di Xenia (Chulpan Khamatova) e del marito Alexander Pushkin (interpretato dallo stesso Fiennes), trattengono un erotismo inespresso e indirizzato a quella giovane e ribalda sessualità di Rudolf, la cui osservazione sembra riflettere il pudico, inconfessabile scrutare di un’energia irrappresentabile.
Non sembra esserci spazio per l’erotismo in “The White Crown”, se non per negazione e controllo di tutte le qualità istintive, costrette nello spazio della maschera decadente. Emerge l’immagine di un masochismo dolente attraverso i volti di Clara, Xenia e Alexander, figure in prigione, non morti alla ricerca di un raggio di luce.