Luana Muniz è morta il 5 maggio del 2017 a 56 anni per una serie di complicazioni cardiache e renali, lasciandosi dietro un vero e proprio culto legato alla sua vita straordinaria.
L’immaginario fortemente iconico della “Regina della Lapa” era arrivato anche in Italia, grazie alle fotografie di Pedro Stephan e ad una mostra che approdò al Turin Photo Festival nel 2010.
Il corpo mutante della trans più famosa di Rio collideva con il realismo fotografico di Stephan rivendicando la propria dimensione fluida, frutto di progressivi innesti, non solo legati alla superficie epiteliale e ai numerosi tatuaggi che lo coprivano.
Corpo politico quello della Muniz, perché capace di sintetizzare le contraddizioni del suo paese tra illegalità e permissivismo, libertà e pregiudizio, tanto da conciliare gli strati più bassi della criminalità con la sete di diritto, lo sfruttamento con l’accoglienza, l’arte performativa con il superamento di tutte le stereotipie legate al “bello”.
Con questi presupposti l’omaggio ad una figura così imponente e allo stesso tempo borderline ha creato un cortocircuito insostenibile nell’ambito culturale, tanto da accettarne gli stimoli solo attraverso il filtro di uno sguardo ulteriore, perché vivere a fianco di Luana Muniz e della sua arte significava vivere pericolosamente, un’attitudine inaccettabile nell’era in cui il linguaggio viene ridotto alle sue caratteristiche più degradanti, quelle funzionali del social media marketing.
Se chiarezza del discorso, oltre alla qualità del trasferimento, significa spesso anche piattezza, Luana Muniz apre un varco verso l’oscurità e l’indistinto, quei luoghi di “urina, merda e sassi” frequentati lungo il corso di un’intera vita. Luana ha definito più volte la prostituzione come “un successo e una gioia”, rivendicando un percorso di riscatto in parallelo alla storia brasiliana dei diritti LGBT, le cui caratteristiche non sono affatto lineari.
Il crimine non è una scorciatoia per la Muniz, ma una possibilità di vivere contro quella legge che negli anni ottanta uccide e stupra i minori in carcere, non deve quindi sorprendere che lo sfruttamento di una vasta area di Rio si trasformi durante gli anni successivi nella battaglia per l’accoglienza e la tutela delle lavoratrici sessuali. La Muniz reinveste la capitalizzazione del proprio corpo e di quello altrui nella costruzione di un mondo possibile, proprio quando le strade della megalopoli brasiliana non accettano l’evoluzione del diritto e registrano il feroce incremento della violenza transfobica.
La Muniz come presenza iconica comincia ad esibirsi proprio negli anni ’80, trasformando le radici dello spettacolo brasiliano con assimilazioni e influenze post-moderne. I suoi riferimenti sono Julie Newmar, La Streisand, Madonna, Grace Jones, ma al di là di “Mimosa”, il musical con il quale debutta al teatro Brigitte Blair, è il corpo continuamente messo in gioco che rimane costantemente al centro delle sue numerose attività, fino a dialogare direttamente con la strada attraverso graffitisti come Marcelo Ment.
“Rio è un travesti” dice Luana Muniz mentre dal finestrino di un’auto osserva l’avvolgente notte brasiliana, definendo così le intenzioni di Evangelia Kranioti, autrice apolide greca, al suo secondo “film saggio” dopo “Exotica, Erotica, Etc.”
“Obscuro Barroco” non è il primo film su Luana Muniz, nel 2017 i brasiliani Rian Córdova e Leonardo Menezes dedicavano alla “Reina de Lapa” un documentario biografico intitolato “Luana Muniz: Filha da Lua”, secondo capitolo sulla storia delle performer brasiliane travesti dopo il film su Lorna Washington.
Da parte sua la Kranioti segue un percorso del tutto personale e già con il precedente film, metteva in scena in forma di poema sperimentale la storia di un corpo segnato dalla prostituzione e da una visione estrema del vivere.
Proprio per questo, anche se tra il lavoro di Córdova/Menezes e “Obscuro Barroco” intercorre una distanza minima, l’ultima testimonianza della Muniz scrive il film stesso insieme alle immagini evocative filmate dalla Kranioti, collocando la sua opera in una zona molto lontana dalla ricostruzione documentale e più vicina al cinema di poesia.
Emerge un’altra immagine di Rio rispetto alla tradizione del Carnevale, tanto che questo viene filmato scegliendo punti di vista marginalmente distanti per esaltarne la potenza fenomenologica, quasi fosse un inquietante cataclisma naturale, oppure avvicinandosi ai corpi che per la Muniz rappresentano la forma stessa del cambiamento. Ed è lei che domina la città, come una dea pagana che ha accolto il mistero alchemico della trasformazione, un’energia sotterranea che ribolle sin dalle radici vegetali di Rio e che punta irrimediabilmente verso la morte e la rigenerazione, in un flusso vitale continuo.
La Kranioti cura anche la direzione della fotografia e dipinge letteralmente l’immagine trovando una consistenza che in certi casi si avvicina al technicolor degli anni cinquanta, mentre in altri gioca con i contrasti tra immagine elettronica e qualità tattile.
Al centro un corpo che come un albero, mostra tutte le stratificazioni temporali, accogliendo la decadenza con magniloquente dignità.
“Obscuro Barroco” è in questo senso un anti-commiato che trattiene tutta la forza terminale di quei film vicini all’oscenità della morte, sorprendentemente attraversato da una forza spirituale che manda in frantumi qualsiasi dialettica religiosa.
Luana osserva Rio dall’alto, eden e inferno nel punto di incontro tra verticale e orizzontale, generato dall’eros e scagliato nel mondo. Una cosmogonia potentissima rintracciata nella costante relazione tra il corpo individuale e l’immaginario di una città sconosciuta, che da esso sembra promanare.
L’ultima trasformazione descritta da Angela Carter ne “La passione della nuova Eva”, storia di una Diva del transito che attraversa un mondo aperto sul baratro, dilaniato dalla violenza, sembra condividere con il percorso della Regina lo stesso superamento del limite, ma se la Carter riflette sulla dimensione caotica e pre-formale del mare, la forte presenza fisica della Muniz mantiene una ribalda forza laica che si erge contro le regole dell’indifferenza assoluta degli opposti.
Con i seni cadenti e il corpo generato da un atto estremo della volontà, sembra riecheggiare un non detto: “Travesti Não é Bagunça”, frase quasi intraducibile perché quel Bagunça può alludere al caos, al disordine, a quell’accozzaglia esteriore visibile solo con gli occhi del pregiudizio. Oltre il significato letterale c’è una rivendicazione identitaria nella nota frase pronunciata contro un fotografo improvvisato, mentre Luana gli spaccava la faccia.
Nel film della Kranioti quella stessa resistenza arriva dall’ultima performance confidenziale davanti all’obiettivo, mentre Luana intona “La Vie En Rose” nella versione post-dance di Grace Jones.
Ecco che il caos, il disordine rifiutato con un gesto di ribellione contro chi vorrebbe descriverlo attraverso il giudizio morale, viene riletto attraverso uno sguardo barocco, quello della sovrapposizione incessante di segni, che nella contemplazione di tutte le manifestazioni della natura, accoglie anche l’oscurità, la decomposizione e la furia orgiastica come possibilità di modellare il proprio Dio per metterlo a morte.