Home alcinema Old Boy di Spike Lee: l’identità frammentata

Old Boy di Spike Lee: l’identità frammentata

Egli è un uomo frammentato, dalle molteplici facce e dall’assenza di un’integrità morale, strettamente connessa con il suo lavoro basato sulla menzogna. Ed è ancora un riferimento intertestuale che espleta questa sua condizione. Mi riferisco alla rottura dello specchio nella camera/cella, che riflette l’immagine del suo volto in tanti frammenti sconnessi. Un’immagine che non può non rimandare alla medesima simbologia nel film Dietro lo specchio di Nicholas Ray. E ancor più forti sono le modalità di messa in scena dei suoi flashback, in cui rivive in prima persona quegli spazi del passato ritrovandosi faccia a faccia con il giovane se stesso. Una soluzione che rimanda allo Spider di Cronenberg (che a sua volta cita Il posto delle fragole di Bergman), con un protagonista altrettanto alienato e alla ricerca della verità. Sugli effetti di dissociazione causati dagli allucinogeni artificiali della società moderna è infine da segnalare Un Oscuro Scrutare di Linklater, che estremizza ancor di più il punto di vista soggettivo, allucinato, con la tecnica della pixillation. Spike Lee attinge quindi spudoratamente dal repertorio cinematografico, ma, contrariamente al citazionismo di Tarantino e Rodriguez, sembra voler attribuire un nuovo valore espressivo a quell’immaginario consolidatosi nello spettatore.
Ecco quindi che l’attualizzazione di una storia come quella di Oldboy si presenta come pertinente e necessaria, soprattutto se, come Lee non ha trascurato di fare, la si utilizza per riflessioni sulle cause delle inesorabili incertezze dell’uomo moderno e sulle conseguenze a cui la perbenista società occidentale ci ha condannati (il rapporto incestuoso della ricca famiglia Pryce).
Joe è intrappolato in una stanza, si, ma è una signorile stanza d’albergo, dotata di comfort e servizio in camera con, in modo rilevante, un poster raffigurante l’enorme faccione sorridente di un fattorino nero e la scritta “Cosa possiamo fare per migliorare il vostro soggiorno?”. Il che assume dei toni ironici e grotteschi, ma, ancor più, porta a riflettere sulla metafora che Spike Lee ha voluto rappresentare: Joe è un bianco rappresentante della classe dominante, arrogante, egoista ed indubbiamente razzista. Incarnazione dell’ipocrita società borghese. La cella d’avorio in cui è costretto assume così la forma di quell’abito protettiva che tale ceto razziale e sociale si è cucito addosso, mentre lo sguardo derisorio del fattorino costretto al sorriso e l’occhio scrutatore di Chaney (Samuel L. Jackson) giudicano le sue colpe, spingendolo a ripensare la sua storia, il suo passato che, per esteso, è la storia del negriero uomo bianco. I pasti serviti sono pietanze cinesi in confezioni d’asporto ed i film alla TV quelli di Bruce Lee. Un esame di coscienza passa attraverso l’eccessivo e costante palesare dei propri privilegi e dei propri elementi di sostentamento, fino alla nausea. Lee, in questo, non si distacca dalla sua impronta d’autore, mettendo alla berlina una società che si nutre delle altre culture senza mai accettarle.
La TV, in ultima analisi, assume qui una funzione di condensatore storico. La storia raccontata per immagini, che scorrono sullo schermo illustrando il susseguirsi delle vicende connesse alla presidenza Clinton, poi Bush ed infine Obama – che la ricongiunzione di Joe con se stesso e l’apprestarsi alla fuga dalla stanza coincida con la proclamazione di Obama presidente non è casuale, secondo l’ottica di giudizio sociale e morale suddetto –. La narrazione intermediale quindi è ben efficace, ma, tra tutte le immagini reali della storia contemporanea, Joe assiste anche ad un programma televisivo incentrato sul tema dei crimini irrisolti. Qui sente parlare della sua scomparsa e viene a conoscenza di essere ritenuto l’assassino di sua moglie. Diffamato dal mondo esterno e sempre più disperato per la sua condizione tenterà il suicidio, ma la speranza di poter rivedere un giorno sua figlia, ripresa dalle telecamere del programma, gli darà la forza di superare il degrado psicofisico a cui sembrava condannato. La rivelazione finale però farà cadere tutte le sue convinzioni, verrà rivelata la messa in scena ad hoc del programma per manovrare le sue certezze. <<La gente crede a tutto ciò che vede in televisione>> dirà spietatamente Pryce, mostrandogli il teatro di posa e lo studio dove la trasmissione era stata creata, e dove, con abile sagacia, Spike Lee ha deciso di chiudere la storia. Joe, disperato, resta pietrificato davanti ad uno specchio dietro cui le foto della sua vera figlia si susseguono in dissolvenza. Un’immagine su cui ci si potrebbe scrivere un saggio. Qui ci limitiamo ad azzardare un quesito: e se la realtà che ci viene mostrata dai media non fosse quella vera? Fino a che punto è accertabile come istanza di realtà il medium televisivo, e non solo?
Oldboy, quindi, sottende anche una certa critica all’invadente proliferare delle tecnologie – si vedano le sequenze di lotta, inscenate con movimenti che rimandano ai videogame propinatori di violenza -, generatrici più di ulteriori dubbi che di garanzie di verità. Catastrofica conseguenza è la condanna all’eterna formulazione della domanda esistenziale: io chi sono? Ed è ciò che Joe si chiede, ritornando nel luogo della sua ricerca interiore: la stanza/prigione, da dove, forse, non si è mai allontanato.

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