Lo sloveno Olmo Omerzu firma il suo secondo lungometraggio a tre anni di distanza da A Night Too Young, rileggendo quello stesso racconto di formazione, ma allargando la prospettiva a tutti i componenti di un nucleo famigliare.
Igor (Karel Roden) e Irena (Vanda Hybnerová) si prendono una pausa in un’isola tropicale tra wilderness e relax portandosi dietro il cane Otto, un bellissimo border collie, e lasciando a casa Erik (Daniel Kadlec), il figlio quindicenne e Anna (Jenovéfa Boková) la sorella maggiore. Mentre comunicano con i figli via skype, questi abbandonati ad una forzata autogestione, affronteranno la momentanea autonomia infrangendo alcune regole e sarà proprio Erik in qualche modo a farne le spese a partire dalle attenzioni che Kristýna (Eliška Křenková), un’amica della sorella maggiorenne, rivolgerà nei confronti dell’adolescente, sconvolgendo la sua vita.
Come nel film precedente Omerzu segue con uno sguardo tra tenerezza, commedia nera e una prospettiva antropologica, le piccole feste in casa, le serate in discoteca, gli approcci tra Erik e Kristýna e il progressivo scollamento dalla realtà del ragazzo, nel confronto doloroso tra i primi turbamenti erotici e le piccole crudeltà della ragazza. Un piccolo mondo selvaggio che stabilisce una relazione simmetrica e opposta all’assenza degli adulti, fino a quando questi non invieranno più alcun segnale per un incidente subito nel mare in tempesta riguardo al quale Omerzu non ci fa vedere niente, concentrandosi sul povero Otto che sfida le onde marine approdando da solo e con fatica verso la riva.
Mentre a Praga si consuma il dramma famigliare, Otto comincia ad occupare una parte consistente del film, al centro di una lotta per la sopravvivenza che sembra replicare a distanza le immagini del documentario naturalistico che il padre guarda con i figli nella sequenza di apertura.
Alla necessità d’amore che adulti e adolescenti non riescono più a comunicarsi, nascondendo segreti, negando i propri desideri e infliggendosi piccole e dolorose cattiverie, l’ostinazione alla sopravvivenza del cane e l’attesa infinita per i suoi padroni, serve al regista sloveno quasi per rafforzare quel senso di progressivo disfacimento che il nucleo famigliare subisce, giocando tutta l’intensità sulla drammatica lotta di Otto.
Nonostante il rischio che si scivoli in una simmetria sin troppo esplicita, Omerzu evita di insistere in modo marcato sulle forme di certo cinema della crudeltà, ribaltando continuamente il punto di vista e cogliendo tutti i suoi personaggi in uno stato di abbandono reciproco, con uno sguardo che è si antropologico, ma che si libera da quella stessa indifferente distanza con la ricerca dell’empatia nel gesto impercettibile e nel non detto, tanto che anche la resistenza del cane viene condotta attraverso una progressione narrativa assumendo tratti dolorosissimi senza il minimo tentativo di antropomorfizzare il punto di vista dell’animale, a partire dal viaggio in aereo insieme ad un gatto e un altro cane nelle gabbiette di sicurezza fino all’incredibile incontro con la rana nell’isola tropicale, a conferma di un contrasto molto interessante tra realismo e disinnesco delle sue stesse dinamiche attraverso il ricorso ad un certo tipo di surrealtà che scorre sottilmente lungo tutto il film.
Anche a partire dal titolo, sembra che l’intenzione di Omerzu sia quindi quella di decostruire la dimensione del film per famiglie, lavorando sul denudamento, più che sul rovesciamento, degli elementi costitutivi di quel tipo di cinema.
L’ultima straordinaria sequenza in cui lo sguardo ormai spento del cane si incrocia nuovamente con quello del suo padrone è tutta giocata sulla semplicità del gesto e la capacità di Omerzu nell’elaborazione di un linguaggio poeticamente legato alle piccole ambiguità e ai silenzi del quotidiano.