James Wan non riesce proprio a uscire dalla seduzione del congegno, ma lo fa in un modo così maldestro da risultare un simpatico gestore di luna-park più che un devoto discepolo delle decostruzioni Craveniane. Insidious 2, fortemente voluto da Jason Blum per consolidare il franchisee nelle mani della coppia Wan / Whannel, è una riscrittura del primo episodio, contaminata da tutto il percorso filmografico di Wan, incluso il recente The Conjuring da cui desume certamente alcuni registri tra i ’70 e gli ’80, ma senza ripetere quella filologia un po’ scolastica che inspiegabilmente ha fatto gridare al miracolo una parte della critica anche dalle nostre parti. Sia che si tratti di un fasullo “rigore” vintage o di una deriva programmatica del dispositivo narrativo, Wan è interessato all’effetto peek-a-boo e al gioco di prestigio, tanto che Insidious 2 risulta il suo film più selvaggiamente carnevalesco.
Nel 1986 Josh è un ragazzino con capacità extrasensoriali capace di stabilire un pericoloso contatto con un altrove popolato da numerose presenze, consentendo al suo corpo astrale di viaggiare fuori dalla realtà sensibile, un ponte che potrà essere interrotto solamente con l’ipnosi. Le facoltà di Josh torneranno vent’anni dopo, attraverso suo figlio Dalton imprigionato in un irreversibile stato comatoso; per salvare il piccolo “viaggiatore” la medium Elise perderà la vita mentre Josh, letteralmente spedito dall’altra parte, riuscirà a salvare il figlio. L’uomo che è tornato indietro non è l’amorevole padre di famiglia e il devoto marito di Renai, ma un corpo destinato alla decomposizione e posseduto da una presenza malvagia che per rendersi agevole il transito, deve uccidere.
Che Wan sia interessato alle dinamiche del nucleo famigliare non è chiaro solo da questa sinossi ridotta all’osso ma da alcuni elementi che già si affacciavano nel precedente film e che identificano il gioco infantile nella moltiplicazione degli oggetti dedicati all’infanzia come carillon, “telefoni” di latta, dadi e giocattoli, vere e proprie indicazioni per riattivare il mondo sepolto nella propria psiche. È ovviamente una traccia superficiale, facilmente ricostruibile e che prima di tutto spezza il film in due universi visivi in continuo dialogo; da una parte l’horror fine ’70, come in The Conjuring legato agli oggetti e ai dispositivi analogici destinati a rivelare una prospettiva “altra” della visione (videocassette, fotografie, registrazioni, rumore bianco), mentre dal lato opposto c’è il gingillo finto-documentale del found footage e dei mezzi digitali, tanto che la fotografia del fido John R. Leonetti qui mescola le carte in tavola e dalla prima parte del film più o meno in linea con la filologia obbligata e stucchevole di The Conjuring passa al modo in cui i primi dispositivi digitali osservavano la realtà.
In questa progressiva penetrazione infantile nel tunnel degli orrori, Wan prova anche a trastullarsi con il tempo e a farlo collassare in uno sdoppiamento palindromo tra passato e presente che a un certo punto ricalca in modo sfacciato la continua messa in abisso di Inland Empire, replicandone la sequenza in cui Nikki Grace esce per la prima volta dal set e “sfondandolo”, vede se stessa già vista. È uno spazio che per il regista di origini malesi è assolutamente circense, tanto da infilarci una “supposta” versione metafisica di Psycho che per il tono sopra le righe e ludicamente caricaturale, gli effetti di grana grossa e la scelta di ricorrere ad una serie di trovate “old style” di natura prettamente ottica, fanno forse pensare più allo spirito di William Castle che non a quello di Hitchcock. Ed è proprio l’autore di Homicidal che ci è venuto in mente durante la visione di Insidious 2; stessa voglia di rimanere sulla superficie del gioco, come fosse appunto un gingillo da innescare e disinnescare per il gusto di farlo, stessa prorompente mancanza di equilibrio, stesso citazionismo sgangherato, tanto che ci torna perfettamente il massacro critico a cui il film è stato sottoposto in ogni dove, in opposizione alla buona accoglienza riservata all’educatissimo e monocorde The Conjuring. Certo, non è più tempo di un cinema che ti mette i petardi sotto al culo, ma Wan sembra fottersene alla grande.