On Vous Croit si apre con una sequenza di grande drammaticità, dove una madre preoccupata cerca di convincere con la forza il figlio adolescente a prendere i mezzi pubblici.
Un’estrema vicinanza ai volti, ai corpi e allo scontro fisico mediante orchestrazione soggettiva, che si contrappone subito dopo alla geometria di un moderno tribunale fatto di vetro e cemento.
Al suo interno Alice e i figli Etienne e Lila attendono un’udienza evidentemente traumatica, mentre il minore si rifiuta strenuamente di incrociare, anche solo per un istante, la figura che rappresenta l’altra parte del dibattimento e che scopriremo essere il padre, nascondendosi negli anfratti di un luogo inospitale, dove sembra impossibile uscire.
Nel loro primo lungometraggio, i belgi Charlotte Devillers & Arnaud Dufeys scelgono di avvicinarsi fino al limite ai corpi e ai volti dei personaggi, per rinchiudere ansie e urgenze dentro una struttura filmata con intenti concentrazionari. Una prigione angusta, caratterizzata da scale, corridoi e riflessi che limitano l’espressione del soggetto, per tradurre visualmente il peso di una legge tecnicamente chirurgica, inadatta ad applicare le conquiste dello stato di diritto come forma di tutela per i minori.
Questa immersione in uno spazio illuminato a giorno da una luce accecante ed azzerante, sembra desumere alcuni motivi visuali dall’espressionismo, per la relazione tra corpi, volumi architettonici e la loro stessa dialettica all’interno di una realtà prospetticamente distorta.
A questa sezione introduttiva fa eco l’ultima parte del film, mentre lungo 55 minuti viene ricalcato il tempo reale dell’udienza con l’ausilio di veri avvocati, impegnati insieme agli attori a sdipanare le caratteristiche della vicenda che coinvolge i due contendenti.
Con un approccio marcatamente laboratoriale, il duo di autori riconfigura il courtroom drama riorganizzandone proprio lo spazio scenico in una disposizione frontale, costretta in quest’aula che domina la città dall’alto e con un valore assoluto assegnato alla metamorfosi dei volti, vere e proprie mappe emotive, contradditorie, rivelatrici e imperscrutabili.
Il tentativo di Devillers/Dufeys è quello di discutere tutte le strategie di tutela relative alla protezione dei minori in caso di incesto, quando questo non è evento documentabile se non attraverso le numerose forme di rivelazione, conscie e inconscie, che il gesto, la parola e il corpo delle vittime, possono esprimere.
C’è una qualità cinematografica intrinseca in ciò che la legge non può provare e nella struttura stessa del dibattimento in aula.
Da questa prospettiva, i due autori tentano una strada diversa rispetto al dato testimoniale che reagisce con altre forme del racconto, tra cui quella legata alla visualizzazione della memoria, concentrando tutto sulla parola e sulla gestione attoriale del volto.
Un esperimento a suo modo radicale, estremo nel rendere indefinita la verità e nel concentrare tutte le ipotesi e lo sprigionarsi delle immagini nel precario equilibrio tra raziocinio ed emozioni, vissuto da avvocati, contendenti, giudice, e dove si manifesta lo scarto spesso violento tra parola e capacità del volto di esprimere altri significati.
Inchioda questa disamina impietosa e tecnica del linguaggio giudiziario, separato da quella tensione eminentemente teatrale e quindi calato nello spazio del cinema mediante il contrasto durissimo tra primo piano e parola. Fuori campo, tutti gli eventi evocati dall’esposizione dei fatti si concretizzano attraverso le espressioni contratte e rilasciate dal volto di Myriem Akheddiou, proprio quando a parti invertite non riescono mai ad avvicinare completamente l’indicibile, oppure lo sfiorano per incuria, delegittimazione, vittimizzazione secondaria. Tutte definizioni che si avvicendano e che non riescono a tradurre quel dolore completamente visibile sul volto della donna.
Un crinale delicatissimo, perché senza mettere in dubbio i principi della presunzione di innocenza, Devillers/Dufeys evidenziano i punti deboli di quello stesso diritto, quando questo si sovrappone pericolosamente alle necessarie norme di protezione preventiva nei confronti di un minore a contatto con la possibilità di un trauma reiterato e reiterabile, da cui potrebbe rivelarsi impossibile tornare indietro.
Diventa allora insostenibile assistere alla descrizione delle conseguenze psicofisiche sul corpo di Etienne che hanno cambiato la sua vita dopo i supposti stupri perpetrati dal padre. Nel tentativo di cercare una dimensione equidistante nel racconto di esperienze soggettive plurali, l’orrore preme dai margini e inibisce la messa in atto di altre tutele, per rispetto procedurale.
Qui i due autori sembrano lasciar andare gli ormeggi, attivando una sequenza frequentativa di eventi che sfondano le pareti rappresentative del tribunale, per favorire il gesto liberatorio.
Il boccaglio da sub ficcato in bocca al padre e successivamente lo sfottò sui capelli finti dell’avvocato dei minori da parte dei figli di Alice una volta fuori dal tribunale, tendono ad attivare la forma di una reazione anarchica rispetto all’esistente e che fa il paio con la didascalia conclusiva, quella che ci informa sulla percentuale esorbitante di incesti rimasti impuniti.
Se sia un disequilibrio rispetto alle scelte estetiche sino a qui praticate, oppure un’improvvisa necessità di aprire il film ad una possibilità semplicemente liberatoria, più vicina alla percezione del popolo contro la legge, è difficile da stabilire, perché al di là delle riflessioni che può innescare sul piano giudiziario, è interessante il contrasto tra due opposte gestioni dello spazio, che rovescia improvvisamente il film come un guanto, attraverso la parodia feroce di quel sistema impenetrabile rappresentato fino a quel momento.
Eppure, nel succedersi di immagini fulminanti che è difficile dimenticare, emerge la solitudine del giudice, quella di Etienne, la vergogna improvvisa che assale il volto dell’avvocato del padre, l’incapacità espressiva, quasi fragile, dell’uomo stesso, ma soprattutto il girovagare di Alice alla disperata ricerca dei figli, in uno spazio protetto che improvvisamente diventa labirinto inestricabile, parte dello splendido e terribile set design immaginato da Mathilde Lejeune, reso ancora più sottilmente minaccioso dall’elettronica di Lolita Del Pino, drone music impalpabile come la luce satura fotografata da Pépin Struye.
Devillers/Dufeys, già al lavoro su nuovi lungometraggi, sono due autori di talento da tenere assolutamente d’occhio.