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Otherlife di Ben C. Lucas: la recensione

A sette anni dal sorprendente debutto, Ben C. Lucas torna a girare dentro gli spazi "realmente fantascientifici" della sua Perth. Otherlife è disponibile da pochi giorni sulla piattaforma Netflix, ed è uno dei migliori film dell'anno. La nostra recensione

Ren Amari è una ricercatrice giunta al termine di una lunga sperimentazione sulla realtà virtuale immersiva. I suoi studi sono legati alla conoscenza profonda della biochimica e allo sviluppo di un codice che sia in grado di modificare la relazione tra cervello e neurotrasmettitori. L’ingresso in un’altra vita sarà possibile attraverso la somministrazione di una “droga” che contiene il codice, un liquido nero inserito direttamente nell’occhio dell’utente e in grado di sollecitare il cervello a vivere una dimensione parallela perfettamente identica alla realtà esperita.

Il governo è interessato a mettere le mani sulla scoperta, per risolvere il sovraffollamento delle carceri e quello del re-inserimento sociale in un colpo solo, nell’ipotesi di generare una cella virtuale la cui relazione temporale con la realtà sia definita da un rapporto di 365 giorni di detenzione virtuale, corrispondenti ad un minuto di vita reale.
Ren è in totale disaccordo, perché ha impiegato anni di ricerca per salvare il fratello dal coma profondo, con la speranza che un inganno cognitivo e una nuova regolazione delle sue sinapsi possa svegliarlo dal lungo sonno.

Sono passati ben sette anni dal debutto di Ben C. Lucas. “Wasted on the young” era una piccola produzione dalla sorprendente potenza visuale, girata nella suburbia di Perth a City Beach e intorno agli ambienti universitari della stessa città. L’architettura funzionale urbana, l’evoluzione delle applicazioni brutaliste degli anni sessanta in un sistema di sviluppo assorbito dal contesto naturale, l’attenzione al controllo del sole e a quello bioclimatico che ha modificato la forma e la concezione delle grandi strutture, la nuova esplosione “luxury”, erano tutti elementi che Ben C. Lucas, insieme alla notevole fotografia di Dan Freene, sintetizzava in uno sguardo interno/esterno ai campus metropolitani di Joondalup nel grande complesso universitario di Edith Cowan.
“Wasted on the young” raccontava una città “separata dal mondo”, descrivendo una società nella società, definita attraverso le caratteristiche “insulari” della post-adolescenza.
Mentre emergeva una realtà tecnologizzata ai fini del comfort,  la geometria contrastiva dei blocchi architettonici, osservava la natura, tenendola a distanza.

La ricombinazione di questi spazi avveniva attraverso i sistemi di sorveglianza, gli smartphone, le webcam, la messaggistica, i social network; dove l’assorbimento del reale nel gioco proliferante delle reti virtuali, determinava la progressiva scomparsa di un’assunzione di responsabilità rispetto all’azione e al gesto automatico.

Un thriller certamente, un dolente ritratto giovanile, un quadro iper-realista dipinto con una straordinaria lotta tra luce naturale e illuminazione artificiale, ma anche uno sguardo sulla morfologia dello spazio sociale, filmato come il circuito di un grande mainframe.

Questa visione futuribile della città “reale” torna in modo ancora più estremo in Otherlife e si oppone sempre di più alla miniaturizzazione della tecnologia. Tutto il codice dell’architettura virtuale è in una goccia di collirio nero, mentre l’immagine della tecnologia, quella che nel cinema di fantascienza dagli anni ottanta in poi ci consentiva di immaginare le città come un agglomerato di componentistica, si allinea al cambiamento che ha determinato l’espansione di una nuova morfologia urbana. 

La Perth di Otherlife è filmata da Ben C. Lucas come una città virtuale senza alcun intervento CGI, ma costruendo la visione “fantascientifica” attraverso la combinazione di molteplici punti di vista “selezionati” dall’architettura viva della città. Viene quindi individuata una funzione principale nell’allargamento dei “living spaces” che hanno totalmente sostituito la natura. Questa riemerge attraverso l’esperienza immersiva e psichica indotta dalla “droga” che Ren Amari (una notevole Jessica De Gouw) ha sviluppato. 

Il codice “stampato” nel liquido e inoculato attraverso l’iride, interagisce con i neurotrasmettitori del cervello e ne modifica la chimica. È il funzionamento della memoria che viene sollecitato ad imprimere nuovi principi nella rete neuronale, cambiando le relazioni tra associazioni emotive e ricordi, immaginazione e pensiero. 
Ben C. Lucas insiste molte volte sul cervello inteso come computer chimico e sull’idea di sopravvivenza dell’anima, ma ciò che sembra interessarlo maggiormente è la costruzione di un nuovo sistema narrativo basato sulla relazione tra spazio e punto di vista. Sono semplicemente le suture o le marcature da uno stato all’altro che stabiliscono un confine apparente, in prima istanza contrapponendo l’esperienza “naturale” dello snowboard con l’opprimente fisiologia architettonica della città.

In questo senso il film è agli antipodi di Inception perché nel condividere una riflessione apparentemente simile sulla sostanza dei ricordi e la curvatura dello spazio-tempo, stratifica la dimensione scopica a partire dal modo in cui facciamo esperienza dello spazio sociale, ricreando quindi una sorprendente flagranza documentale sulla relazione tra persona e città, nello stesso modo in cui Chris Marker individuava la verità tra gli interstizi della “replica”  sul set di “Sacrificio” di Tarkovskij.

Se la contrazione del tempo nello spazio virtuale viene definita inizialmente da un punto di vista teorico e concettuale, con un minuto reale che si traduce nei 365 giorni di prigionia virtuale grazie ad un vero e proprio inganno neuronale indotto, a complicare e confondere i piani di lettura è il successivo smontaggio di questo stesso spazio, come se fosse il set del falso allunaggio approntato in “Conto alla rovescia” di Robert Altman.

La città è la stessa ma diventa improvvisamente una fata morgana, tra l’acciaio e il vetro, il cemento e la natura, mentre dalla realtà esperita fino al continuum corrotto da un glitch presente nel codice i confini cominciano a sovrapporsi. 

Se pensiamo a Source Code di Duncan Jones, dove la riflessione narratologica era maggiormente esplicitata nel mettere in scena il suo stesso funzionamento, Ben C. Lucas si sbarazza di tutta la zavorra metalinguistica, lavorando sulla percezione dello spazio e sul nostro modo di ricombinarlo attraverso l’esperienza della flanerie urbana.

La stessa relazione con la morte diventa allora labile, sospesa tra ricordo e realtà fattuale. Improvvisamente il dolore è intangibile, come l’orizzonte infinito del mare.

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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