Le storie di Olga, Jules e Helmut si intrecciano durante gli eventi più tragici del secondo conflitto mondiale. La donna è un’aristocratica russa, membro della resistenza francese, arrestata dalle SS per aver nascosto e protetto due bambini ebrei durante un raid nazista. Jules, commissario e collaborazionista ai tempi della repubblica di vichy, investiga sul suo caso e promette un alleggerimento della pena in cambio di favori sessuali.
Anche se Olga accetta lo scambio, gli eventi la condurranno comunque in un campo di concentramento dove incontrerà Helmut, ufficiale delle SS, una volta innamorato di lei e con la fiamma dei sentimenti ancora accesa.
Il “Paradiso” del titolo è un non luogo ideale, l’aspirazione massima dell’individuo osservata da prospettive diverse e contrastanti, inclusa la distorsione del concetto di Übermensch.
Filmato in un bianco e nero austero e chiuso nel formato 4:3 il nuovo film di Andrei Konchalovsky pone a distanza la Shoah con un didascalismo imbarazzante, cercando di elaborare una verbosissima riflessione sulla Storia innervata da una percezione deterministica degli eventi, quasi un tentativo di comunicare con il presente, ma attraverso un digest hegeliano scarsamente incisivo, dove le immagini sembrano un corollario all’ennesima ruminazione sulle origini del male e sulla minore o maggiore possibilità di compiere il bene rispetto alle occorrenze socio-politiche.
Konchalovsky scrive la sceneggiatura insieme ad Elena Kiseleva dopo l’esperienza per The Postman’s white Night, strutturando il film attraverso una serie di interviste indirizzate direttamente in macchina e senza che sia possibile conoscere l’interlocutore che pone le domande. Una distanza programmatica dai sentimenti e dalle motivazioni dei personaggi, dove anche l’amor fou tra Olga ed Helmut viene descritto attraverso la supremazia della parola (la sequenza “negata” sul feticismo dei piedi raccontato da Helmut).
Al netto della retorica nazionalista posta in calce, assolutamente in linea con le necessità dell’attuale politica internazionale (produce la rete televisiva russa), sorprende negativamente l’impostazione teatrale del film, con i corpi che non si sfiorano e le testimonianze dei protagonisti, di cui parlavamo, immerse in un’iconologia che rimanda agli interrogatori di un tribunale, ma sopratutto a quella compostezza di maniera che cita rispettivamente Dreyer (Yuliya Vysotskaya come la Falconetti) ma anche Andrzej Munk, tra alcuni dei riferimenti più espliciti ed esplicitati in forma illustrativa.
Alcune scelte grossolane, come la simulazione dei vecchi footage, difetti della pellicola inclusi e il doppiaggio post-sincronizzazione di alcune voci, fanno pensare ad un film realizzato proprio a partire dal “testo” e dalla parola.